Questa è la decima tappa di un viaggio tra storie di inclusione, resistenza e disobbedienza civile. Storie di persone, istituzioni, associazioni e sindacati che compongono un'Italia diversa. Perché a fare da contrappeso al razzismo strisciante che attraversa il Paese da anni, c'è anche un Paese che resiste, giorno dopo giorno, all'odio contro i migranti riversato sui social network da migliaia di account, veri o falsi che siano. Un'Italia che dice no. E che spesso non ha voce, che non trova quasi mai spazio nei talk show televisivi, nei “trend topics”, o sulle prime pagine dei quotidiani. Eppure c'è, e si dà da fare. Sempre nel rispetto dei princìpi della Costituzione.

Prima tappa: Saluzzo​ | Seconda tappa: Catania Terza tappa: Ventimiglia | Quarta tappa: Ferrara | Quinta tappa: Matera | Sesta tappa: Gioia Tauro  | Settima tappa: La Spezia | Ottava tappa: Roma | Nona tappa: Perugia

“Lo slogan ‘prima gli italiani’ è nato qui”. Damiano Galletti lo dice alzando un poco la voce, battendo più volte l’indice sul tavolo e puntandoti addosso i suoi occhi di ghiaccio. Fuori, Milano è sferzata da un brutto temporale, una nebbia sottile s’alza lenta dalle strade ormai fradicie. Il palazzo che ospita la Cgil lombarda, però, la squarcia e s’impenna verso l’alto come un monolite di cemento. In realtà, con quel “qui”, il presidente della Fondazione Guido Puccini per i diritti dell’uomo si riferisce alla “sua” Brescia. Già capitale dell’industria europea, cattedrale operaia, che oggi, dopo Milano, Roma e Torino, registra il più alto tasso di residenti stranieri, 19 su cento. Ma anche il capoluogo in cui la Lega alle ultime europee ha rischiato seriamente di sfondare il tetto del 50 per cento.

“La politica discriminatoria nei confronti dei migranti che Matteo Salvini propaganda oggi a livello nazionale – continua Galletti quasi senza prendere fiato – viene sperimentata nel nord della Lombardia da oltre dieci anni”. Nelle province di Brescia e Bergamo, soprattutto. Qui un folto manipolo di sindaci a capo di giunte monocolori leghiste hanno sfornato, e continuano a sfornare, decine e decine di ordinanze “creative” e palesemente anticostituzionali. L’obiettivo è sempre lo stesso: estromettere i cittadini stranieri dal welfare locale. Alcuni di questi casi sono riusciti anche a conquistare gli onori delle cronache nazionali. Come quello del famigerato sindaco leghista di Adro, oggi europarlamentare, che pensò bene di tappezzare con 700 simboli del “Sole delle Alpi” una scuola media, e che poi vietò la mensa ai bambini delle famiglie morose. Oppure quello dell’operazione “White Christmas”, una vera propria caccia all’immigrato organizzata dal Comune di Coccaglio in occasione del Natale. Fino ad arrivare alla più recente vicenda di Lodi, dove la richiesta di documenti praticamente impossibili da reperire aveva di fatto escluso i bambini stranieri dall’accesso ai pasti nella scuola e agli scuolabus.

La politica discriminatoria di Salvini è nata qui oltre 10 anni fa

“Le delibere di questo genere, però, sono molte di più, magari hanno un minor impatto mediatico, ma non sono certo meno gravi”, spiega ancora Clemente Elia della Cgil di Brescia e del Dipartimento immigrazione sindacato regionale, mentre sventola sotto il naso una lista di atti amministrativi discriminatori impugnati in tutti questi anni dalla Camera del lavoro di Brescia.

LE “ORDINANZE CREATIVE”
È una lunga sequela di cause, più di cento e “tutte vinte”, che dal 2008 a oggi ha seriamente impegnato il sindacato, insieme alla Fondazione Piccini e all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. I tre soggetti lavorano in squadra. La Cgil di Brescia individua i casi, la Fondazione è iscritta all’apposito registro dell’Unar presso la presidenza del Consiglio dei ministri, ed è quindi abilitata ad agire in giudizio per conto terzi in caso di discriminazioni, l’Asgi invece si occupa degli aspetti più strettamente legali. Su quella lista ce n’è per ogni gusto. Si va dalle ordinanze che chiedono di dimostrare un certo reddito ai cittadini stranieri per iscriversi all’anagrafe di Ospitaletto, all’obbligo dell’utilizzo della sola lingua italiana per tutte le riunioni aperte al pubblico di Trenzano. Dal bando per le borse di studio per i soli ragazzini italiani di Castelmella a quello per l’assegnazione degli alloggi per anziani, che però esclude gli stranieri a Roccafranca. E poi, ancora, il cartello stradale di Pontoglio che invitava chi non fosse “occidentale” e “cristiano” ad andarsene via di corsa, o l’esclusione dei cittadini extra-Ue dai ruoli di farmacista a Desenzano. E così via, in crescendo, con altre decine di regolamenti, bandi, disposizioni, gare, tutti esplicitamente finalizzati ad estromettere gli stranieri da case popolari, sostegno familiare e ogni altra prestazione o beneficio. “C’è stata e c’è ancora – prosegue Elia – una vera e propria proliferazione di ordinanze di comuni più o meno grandi e importanti, che violano palesemente la nostra Costituzione e i diritti fondamentali di ogni persona. Per questo il sindacato ha istituto un osservatorio provinciale su questi temi e ha iniziato con le azioni legali”.

È una  proliferazione di ordinanze di comuni  che violano palesemente la Costituzione

Lo stesso accade pochi chilometri più in là, nella provincia di Bergamo. Annalisa Colombo è segretaria della Cgil locale, coordinatrice dell’ufficio migranti e del segretariato sociale. I due uffici si trovano uno affianco all’altro nella sede del sindacato bergamasco, e anche lei ha una lunghissima lista di ricorsi e azioni legali da esibire. Sono centinaia e, pure in questo caso, sono stati vinti tutti. “Abbiamo intrapreso la strada dei tribunali quando non c’erano alternative”, racconta. L’iter, in realtà, è sempre lo stesso: prima s’invia una lettera di diffida al Comune in questione. Se non si riceve risposta, si segnala il caso all’Unar, l’Ufficio antidiscriminazioni razziali del Dipartimento delle pari opportunità, presso la presidenza del Consiglio. Poi è la volta della segnalazione alla Prefettura, e solo alla fine si va in tribunale. “Per l’assegno di maternità dei Comuni, ad esempio, abbiamo impugnato le domande respinte di 74 mamme. In molti casi è bastata la diffida per ottenere la prestazione. Ma in altri non abbiamo potuto far altro che forzare la mano. Quindi abbiamo intentato 6 ricorsi per 17 donne straniere residenti di 4 comuni. E li abbiamo vinti tutti”. Nel mirino della Cgil bergamasca, però, è finita spesso anche l’Inps. Per quanto riguarda il bonus bebè, ad esempio, 28 ricorsi hanno avuto esito positivo, per un totale di 137 persone, ma ci sono ben 133 contestazioni in attesa di risposta o ancora da depositare. Così come sono 26 i ricorsi per l’ottenimento del bonus famiglia della Regione Lombardia.

A Bergamo in molti casi è bastata la diffida

“Si tratta sempre di migranti regolari che sono in Italia da anni, ma con un titolo di soggiorno non permanente e un reddito non abbastanza alto da ottenere il titolo di lungo periodo – continua Colombo –. Questa situazione li mette in un limbo dal quale è davvero difficile uscire. Certe volte, però, la nostra è stata una reazione ovvia a scelte davvero deliranti”. Come quella della giunta della roccaforte leghista di Pontida. È solo di qualche mese fa la notizia che alcuni posti di un parcheggio comunale erano stati sì riservati alle donne incinte, ma solo se di cittadinanza italiana.

LA STAGIONE DEGLI SCERIFFI
A dare il via all’inventiva discriminatoria delle istituzioni locali lombarde fu, nel 2008, l’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, leghista della prima ora. Il 24 luglio varò la legge 125, il cosiddetto “Pacchetto sicurezza”, che conteneva “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”. All’articolo 6 si attribuivano poteri speciali ai Comuni su “sicurezza urbana” e “incolumità pubblica”. La Consulta, dopo qualche anno, definì quella legge incostituzionale. Ma nel frattempo le nuove norme diedero il via alla stagione dei “sindaci-sceriffi”, che armati di ordinanze fecero di tutto per limitare l’accesso dei cittadini stranieri ai benefici erogati dai Comuni. Nei primi mesi, dal maggio del 2008 al marzo del 2009, il Pacchetto Maroni ha prodotto addirittura 600 disposizioni comunali, che hanno dato origine a numerosi ricorsi e contenziosi. Una delle prime giunte a sfruttare i nuovi poteri è stata proprio quella di Brescia, che emanò all’istante un bando per l’erogazione del bonus bebè comunale ai nati nel 2008, ma solo per i cittadini italiani.

Tutto è iniziato nel 2008 con il Pacchetto sicurezza di Maroni 

“Quello fu il primo atto che impugnammo come Cgil, l’inizio della nostra resistenza”, racconta Clemente Elia. È la madre di tutte le cause, la prima riga dell’interminabile lista che continua a scorrere tra le dita: “Abbiamo fatto ricorso per discriminazione e abbiamo ottenuto 6 giudizi positivi, oltre a quello della Cassazione sul regolamento di giurisdizione. Il Comune per sei volte è tornato alla carica, e ogni volta ha perso. In realtà, non avevano alcuna possibilità di vincere, ma insistevano comunque in maniera del tutto ideologica. L’ultima sentenza è di un anno e mezzo fa, sono stati anche costretti a pagare 90 mila euro di spese legali”. “Quando entrammo in tribunale per la prima volta – ricorda ancora Damiano Galletti, che all’epoca era segretario generale della Camera del lavoro di Brescia – ci trovammo di fronte a un giudice che spesso ci dava contro nelle cause di lavoro. Pensai che avremmo perso, invece l’incostituzionalità di quel bando era talmente evidente che vincemmo a mani basse”.

Non avevano possibilità di vincere, erano ideologici

È allora che è nato l’osservatorio sulle discriminazioni, e la rete formata da Cgil, Fondazione Puccini e Asgi, “ma anche dalla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Brescia che ci dà una grossa mano”. Nell’ateneo bresciano sono state infatti istituite delle “Cliniche legali”, laboratori in cui gli studenti di diritto prestano un servizio gratuito di assistenza e consulenza legale alla comunità locale. La Cgil presenta i casi, gli studenti li analizzano, applicando le conoscenze acquisite, e insieme si elaborano le strategie più efficaci in tribunale. “È uno strumento essenziale – dice Elia –, anche perché l’ondata di ordinanze non si è certo fermata. Dietro c’è una regia politica chiara, ci sono delibere fotocopia che si ripetono e che si evolvono di volta in volta. Fino a qualche tempo fa c’era addirittura un sito internet, si chiamava ‘Padania Office’, e forniva ai sindaci leghisti dei moduli precompilati per elaborare atti amministrativi discriminatori”.

PRIMA I LOMBARDI”
Il fatto che dietro tutto questo si nasconda una strategia comune è confermato da due sentenze arrivate solo nella primavera del 2019. Si riferiscono a due delibere della Regione Lombardia emanate nel 2015, quando il governatore, guarda caso, era il solito Roberto Maroni. La prima riguarda il bonus bebè regionale, ed è stata definita “discriminatoria” dalla Corte d’Appello di Milano “nella parte in cui prevede ai fini dell’accesso il requisito dei cinque anni continuativi di residenza di entrambi i genitori del nuovo nato”. Allo stesso modo, poco dopo, la Corte ha stroncato la delibera sul bonus affitti regionale. Il bando richiedeva ai soli stranieri di avere un lavoro continuativo e la residenza da almeno dieci anni in Italia, o cinque in Lombardia. Ma c’è di più. Nel 2017 la giunta Maroni ha anche votato un provvedimento che esortava i Comuni a obbligare i cittadini extracomunitari a presentare una documentazione patrimoniale prodotta dai paesi di origine. Solo in questo modo i migranti avrebbero avuto accesso ai benefici comunali.

Dietro le delibere creative c'è una strategia politica

Questo ha dato origine al famigerato “caso Lodi”, con i bambini stranieri che mangiavano in una stanza separata rispetto ai compagni italiani. “È un provvedimento passato sotto silenzio, ed è puramente ideologico. Nonostante anche quello sia stato sconfessato dal tribunale di Milano, che l’ha definito discriminatorio, infatti, è ancora lì. E i Comuni che se ne vogliono avvalere lo fanno senza problemi”, spiega Alberto Guariso, l’avvocato dell’Asgi che cura tutte le pratiche legali della Cgil di Brescia e Bergamo. “La scelta istituzionale della Regione Lombardia, insomma, è quella di continuare a incaponirsi sul principio della residenza per garantire l’accesso al welfare. Al momento, è una posizione smentita dai giudici, che si basano sulla valutazione di ragionevolezza del requisito. Dicono, cioè, che bisogna guardare al bisogno e non alla durata della residenza delle persone. In Lombardia, però, si continua a fare il contrario”.

Bisogna guardare al bisogno, ma in Lombardia si fa il contrario

Per Guariso, un altro enorme scoglio da superare è quello dell’accesso al welfare limitato a chi possiede un permesso di soggiorno di lungo periodo: “C’è un buon 40% di stranieri regolarmente residenti nella nostra regione che lavorano, ma non hanno un reddito tale da accedere a questo titolo di soggiorno. Sono quindi tagliati fuori da tutto. È un circolo vizioso. Perché hanno il diritto di restare, ma vivono di un lavoro povero che non gli permette di accedere ai servizi di cui avrebbero bisogno più di tutti”.

LA LOMBARDIA FA SCUOLA
Nonostante le sconfitte in tribunale, però, l’esempio lombardo continua a fare scuola nelle file della Lega. Il caso più recente è quello dell’Abruzzo, dove solo qualche giorno fa il capogruppo in consiglio regionale e il segretario regionale del Carroccio hanno presentato un disegno di legge dal titolo: “Disposizioni in materia di accesso agli interventi economici e di servizi alla persona: introduzione del principio di residenzialità”. La proposta, in sostanza, stabilisce una lunga residenza come base su cui dovranno attenersi gli enti locali destinatari di risorse regionali per stilare le graduatorie nell’attribuzione dei servizi. In questo caso “prima gli abruzzesi”, insomma. La Lombardia, però, fa scuola anche in senso opposto. “Nella battaglia contro le discriminazioni nei nostri territori, oggi ci aiuta moltissimo la Direttiva europea 98 del 2011 – spiega ancora Annalisa Colombo –. Nel testo, tra le altre cose, si afferma che i paesi membri dell’Unione devono garantire prestazioni sociali a tutti i cittadini che abbiano un qualsiasi permesso di soggiorno che gli consenta di lavorare. Quindi non contano né il tipo di titolo né gli anni di residenza continuativa su un determinato territorio. Questo ci dà la possibilità di continuare sulla nostra strada e ci permette di avere un’arma in più in tribunale”.

In Abruzzo la Lega propone lo stesso principio  

Non è un caso, in effetti, se molte delle azioni giudiziarie per discriminazione che sono attualmente al vaglio della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo nascano proprio dai ricorsi presentati a Bergamo e Brescia.


UNA RETE REGIONALE
La rete formata da sindacato, Fondazione Piccini e Asgi, tra l’altro, sta per fare un ulteriore passo in avanti, con la costituzione dell’Osservatorio di contrasto alla discriminazione presso la Cgil regionale. “L’idea di mettere in comune queste esperienze in uno strumento regionale ha tra i suoi obiettivi anche quello di tenere sotto controllo una fonte di produzione di norme spesso discriminatorie come la Regione Lombardia – racconta Valentina Cappelletti, segretaria regionale con delega all’immigrazione –. Anche perché la Regione è il nostro interlocutore istituzionale. Ma questo ci deve far riflettere su come venga spesso usata l’attività legislativa su questi temi. Io personalmente credo che chi produce norme discriminatorie, Regione o Comune che sia, ne conosca benissimo i profili anticostituzionali. Le fanno lo stesso, ma solo per marketing politico. Usando così in modo spregiudicato e pericoloso il potere legislativo”. “Il nostro è un ruolo di sentinelle, di antenne sul territorio. Perché la discriminazione troppo spesso prolifera nell’indifferenza, e a volte diventa norma – racconta Silva Spera, segretaria generale della Cgil di Brescia –. Abbiamo costituito una fitta rete di delegati, funzionari e cittadini che, anche attraverso in nostri uffici, ci segnalano in continuazione delle violazioni. Non possiamo abbassare la guardia. L’osservatorio regionale, in effetti, ci permetterà di tenere sempre più alta l’attenzione su questi temi e di ampliare la nostra azione su altri territori. E così saremo anche in grado di formare e formarci meglio su questioni che spesso sono molto complesse”.

Il nostro ruolo di sentinelle sul territorio

“Dobbiamo alzare l’asticella delle competenze, perché chi fa le leggi si è evoluto. Oggi non sono più così grossolani come prima. Le loro delibere e ordinanze sono sempre più difficili da attaccare, e la situazione in cui lavoriamo è sempre più complicata”, conferma Annalisa Colombo. “Il problema – commenta Galletti – è che abbiamo sempre vinto in tribunale, ma non abbiamo vinto ancora dal punto di vista sociale e politico. La Lega da queste parti continua a perdere le cause, ma vince le elezioni”. “È vero – lo interrompe Clemente Elia –, però io mi chiedo spesso cosa sarebbe successo se non avessimo fatto quella prima battaglia allora, e se non avessimo continuato per tutto questo tempo. La risposta che mi do è che oggi avremmo forse un welfare differenziato e discriminatorio. Insomma, s’inizia con il bonus bebè e non si sa dove si va a finire”. “Non è solo una questione simbolica – conclude poi, guardando un po’ distratto la nebbia che continua a salire oltre la finestra –. Se non avessimo resistito allora, sicuramente oggi avremmo un Paese peggiore. Abbiamo fatto molta fatica, è vero, ma in ogni caso abbiamo salvaguardato la nostra Costituzione”.