“Sonnambuli, ciechi dinanzi ai presagi”, oltre che anziani, inabissati in una “ipertrofia emotiva” in cui “tutto è emergenza: quindi, nessuna lo è veramente”. È il ritratto degli italiani tracciato dal Censis, nel 57esimo rapporto sulla situazione sociale del Paese. La paura impera, per la crisi demografica, per una nuova guerra mondiale, per il futuro, in particolare del welfare. Un rapporto che, per le conclusioni che trae, ha fatto molto discutere al momento della pubblicazione, perché è necessario indagare su quanto ci vuole dire e perché si presta a letture differenti.

Noi ce lo facciamo leggere da un sociologo, da Carlo Revelli, docente presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale. “Si legge un Paese caduto, non da oggi e non da ieri, ma che ha continuato a cadere almeno in questi due ultimi decenni e che oggi ne mostra tutti i segni”, dice Revelli, il quale ci fa notare che il Censis, nei suoi rapporti, ha sempre letto le trasformazioni del sistema Paese cogliendo sempre “gli elementi di fragilità crescenti e anche di decadenza, ma sempre accompagnando la lettura molto oggettiva e precisa con elementi di ottimismo”.

Ricorda quindi che, ai tempi di De Rita (fondatore e poi presidente del Censis) o di chi ha raccolto la sua eredità, persino il lavoro sommerso è stato connotato come “segno di vitalità”, o la “dimensione molecolare delle nostre imprese come possibile fattore di un qualche vantaggio competitivo”. Venivano sempre visti almeno barlumi di luci insieme alle ombre, “ma quest’ultimo rapporto presenta solamente ombre perché non ci sono luci: i dati non mostrano solamente una popolazione di sonnambuli, ma anche di governanti allo stato di sonnambulismo, brancolano nel buio fingendo di vedere e raccontando quello che non c’è”.

Alla domanda se quindi c’è una specularità tra i cittadini e chi li governa, il sociologo precisa che c’è “una gerarchia di responsabilità, quindi è più grave se il sonnambulismo è delle classi dirigenti, piuttosto che dei sudditi”, ma “non c’è chi nella notte vede ed è in grado di guidare, non c’è in alto e non c’è in basso. Quello che ci viene consegnato dal Censis è un quadro che mostra alcune percentuali perentorie: l’80% del campione definisce il nostro un Paese in declino, così come le percentuali sulle preoccupazioni per il mutamento climatico, per il proprio futuro personale, percentuali quasi totalizzanti”.

Il quadro si riflette anche sui comportamenti elettorali e Revelli fa notare che “in una situazione di estrema preoccupazione ci si aspetta che siano premiate le culture politiche più critiche, invece non è così, invece le ultime elezioni hanno consegnato le preoccupazioni a una maggioranza che non può dirsi critica rispetto al suo operato e allo stato del Paese dopo mesi di governo. Sono critici con i predecessori, ma assolutori su se stessi. Non sono quindi premiate le culture politiche critiche e questo è argomento sul quale pensare”.

La riflessione che ne ricava Revelli conduce all’individualismo dilagante. “La visione delle cose - dice - restituisce ai cittadini un quadro così grave e preoccupante al limite dell’irrisolvibile, una crisi talmente profonda che non lascia intravedere possibilità di soluzione, che allora tanto vale che ognuno pensi a salvar se stesso. È l’orizzonte collettivo che è scomparso, ci dice il Censis, e non ci sono nemmeno più agli sciami dei grandi blocchi sociali precedenti, ma ci sono solamente le singole traiettorie, individuali e personali, alla luce del ‘io speriamo che me la cavo’”.

Per quanto riguarda i grandi scenari di crisi come quella ecologica, il docente punta l’attenzione sulla propaganda del governo: “Non è che la risposta non esiste, come dice il ministro Salvini o allude la presidente del Consiglio Meloni. La gente è ancora in grado di valutare la temperatura dell’ambiente nel quale si muove, ma dato che non c’è soluzione, le soluzioni che vengono proposte sono pannicelli caldi, palliativi, soluzioni talmente parziali da non riuscire a modificare il quadro generale. Per farlo bisogna immaginare un salto di paradigma e il superamento strutturale del nostro modello sociale e di vita complessivo e questo non accade”.

Rovelli esemplifica una tipologia di pensiero che sembra essere comune. “Perché devo abbassare di due gradi il mio termosifone, mentre il mondo viaggia con un riscaldamento globale rispetto al quale il mio gesto non cambierebbe niente? Perché devo sobbarcarmi il sacrificio inutile di cambiare la mia macchina tra dieci anni per comprarne una elettrica, mentre la Cina continua a produrre centinaia di milioni auto a diesel? È qui che funzionano le sirene di Salvini, il suo ‘liberi tutti, godetevi la festa finché dura, e ti racconta magari che destinata a durare per sempre, quando tutti sanno che non è così. Questo è lo scenario da incubo nel quale siamo capitati, ma che il rapporto Censis ci presenta”.

Rimane il dubbio che tutto stia accadendo anche a causa dell’assenza di nuovi pensatori e filosofi in funzione analitica e propositiva e a questo proposito il sociologo non esita a a dire che “il pensiero forte è stato massacrato, mentre solamente un pensiero forte può provare a immaginare un’alternativa all’altezza delle sfide. Da tempo si è fatta strada la convinzione che l’unico pensiero è quello debole e dagli anni 90 in poi siamo stati educati a considerare l’economia l’unica scienza capace di guidare il mondo. La filosofia, invece, finché si occupa di se stessa va bene, se altrimenti si occupa del mondo è roba da utopisti, da anime belle, che è il peggiore insulto che la cultura prevalente può riservarle. È chiaro che oggi i maestri non ci sono, abbiamo solamente contabili di profitti e perdite che ci dicono che è bene quello che produce profitti male quello che produce perdite”.