Nei giorni scorsi Tim ha dato il via alla realizzazione della prima rete Cloud 5G in Italia. Lo ha fatto insieme a Noovle, la cloud company del gruppo interamente controllata da Tim. L’azienda propone soluzioni di edge computing per le aziende e si avvale delle soluzioni cloud proposte da Google.

L’intenzione di Tim è dunque quella di fornire, grazie alla Cloud Network 5G, alle aziende che intendono adottare la connettività e i servizi 5G una rete radio a banda ultra-larga (Ran) senza la necessità di costruire l’infrastruttura fisica della rete core nei propri siti logistici o di produzione. La sinergia tra Tim e Google data marzo 2020: Tim e Google Cloud siglavano allora l’accordo ufficiale per dare il via alla collaborazione tecnologica congiunta, volta proprio alla creazione di innovativi servizi di cloud pubblico, privato e ibrido per arricchire l’offerta di servizi tecnologici di Tim.

Dunque il tema del cloud e la proposizione di soluzioni necessarie per l’implementazione delle nuove tecnologie, come avevamo previsto, diventa asset fondamentale di sviluppo e chiama in campo il delicato rapporto tra sviluppo tecnologico e tutela dei diritti delle persone. Inoltre si pone l’importante questione dell’autonomia tecnologica dell’Europa intera.

Come sappiamo, il 27 maggio 2020 la Commissione europea ha proposto lo “strumento” del Next Generation Eu, e il 30 aprile scorso è stato presentato a Bruxelles il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Come abbiamo più volte detto, insieme alla transizione green, quella digitale è ritenuta ormai imprescindibile per lo sviluppo economico dell’Unione europea, ad essa deve essere dedicato almeno il 20% della spesa complessiva per investimenti e riforme.

Il pilastro digitale del Pnrr parte dalla necessaria razionalizzazione e digitalizzazione della Pubblica amministrazione e dallo sviluppo dei servizi pubblici digitali. Ma questi temi sono indissolubilmente legati al necessario sviluppo di progetti di ricerca pubblici, investimenti in tecnologia, capacità di indipendenza tecnologica almeno in uno spazio europeo.

L’Europa sta cercando faticosamente di percorrere una strada che cerca di contemperare sviluppo e diritti, tutela e protezione. Per questo diciamo e scriviamo da tempo che per noi sarebbe inaccettabile nel nostro Paese la previsione di uno sviluppo tecnologico declinato secondo la logica del mercato e dell’esclusivo interesse dell’impresa. Il rapporto tra big tech ed aziende che operano in territorio italiano ed europeo nella gestione di infrastrutture portanti, come il cloud, deve vedere forte il ruolo di garanzia dello Stato, specie perché in queste infrastrutture saranno custoditi i dati di imprese e cittadini.

Gli accordi in essere tra aziende italiane e big tech, come quello di Tim con Google o Leonardo con Microsoft, necessitano di una posizione chiara da parte dello Stato italiano. Chi governerà quei dati ricoverati grazie alle tecnologie delle big tech, chi ne garantirà la trasparenza e la leggibilità a fini di interesse pubblico? E se questo è l’annoso tema del governo dei dati, non più rinviabile e declinato, nella sua centralità e necessità di tutela, con estrema chiarezza anche nel rapporto annuale del Garante della privacy, parimenti importante è il tema degli investimenti nella strutturazione del 5G.

Anche qui, per non esacerbare il digital divide, solo il governo pubblico della infrastrutturazione può garantirne accessibilità diffusa. A giugno 2022 le televisioni libereranno le frequenze dei 700 MHz, le più ambite per il 5G e dunque, seppure con ritardo rispetto ad altri paesi europei, siamo vicini ad una implementazione massiva della nuova tecnologia.

Non sfugge a nessuno che, se si vuole evitare il continuo aumento del digital divide, legato anche alla possibilità o meno di un accesso davvero sicuro alle tecnologie, vi è necessità di non lasciare al solo mercato l’infrastrutturazione necessaria e, in aggiunta, si necessita di politiche attive utili a colmare tale divario. Dunque è necessario per noi ribadire ancora una volta che una seria politica di implementazione digitale ha bisogno di un ruolo centrale di governo pubblico, regole certe per la tutela dei cittadini e del sistema di imprese, per il finanziamento della ricerca pubblica ed indipendente, lo sviluppo di soluzioni tecnologiche che consentano all’Europa di uscire dalla dipendenza dalle big tech. E c’è bisogno di intervenire sui temi della sicurezza ed autonomia europea nell’adozione di soluzioni tecnologiche che garantiscano la cybersecurity, tema di estrema delicatezza ed attualità.

Le scelte di politica industriale rappresentano il nodo centrale del cambio di paradigma economico in una direzione che modifichi radicalmente gli indirizzi le scelte compiute negli ultimi anni. Indirizzi e scelte che hanno alimentato sperequazioni e disuguaglianze. La tecnologia, infatti, non è neutrale. È necessario contrattare e governare l’innovazione tecnologica per orientarla verso obiettivi di qualità sociale. Tutto ciò non può essere lasciato al mercato; c’è bisogno di una politica chiara capace di dare una nuova centralità all’intervento pubblico.

La determinazione del livello degli investimenti, la loro allocazione, il sostegno alla domanda, la tutela dei diritti, la difesa della centralità del lavoro, sono tutti elementi che richiedono, infatti, una forte regia pubblica, nel rapporto stretto tra governo e parti sociali. Sta proprio qui una delle carenze maggiori del Pnrr presentato dal governo: l’assenza cioè di politiche industriali a partire dai settori strategici. È proprio in questo campo, invece, che c’è bisogno di un cambiamento profondo se si vogliono davvero costruire uno sviluppo ed un futuro diverso per il Paese. Se dunque le linee guida del Next Generation Eu prevedono un intervento pubblico europeo regolatorio sui meccanismi del libero mercato, la declinazione dei piani nazionali deve andare nella medesima direzione.