L’inflazione, dunque, ha rialzato la testa. Da oltre venti anni non accadeva che titoli di giornali e aperture dei tg ne annunciassero allarmati il peso sulla vita quotidiana e immediata delle persone, sul loro futuro e sulle loro speranze. Eppure un elemento colpisce subito. Oggi ci si allarma per un’inflazione al 4 per cento, ma negli anni settanta-ottanta si viaggiava tranquillamente sulle due cifre senza, in fondo, stracciarsi troppo le vesti. È vero che ai nostri giorni ci sono variabili su scala globale che ai più sembrano incontrollabili, e tuttavia l’interrogativo rimane. Perché tutta questa paura se, in fondo, un’inflazione al 4-5 per cento parrebbe in realtà abbastanza sostenibile?

Discutiamo di questo tema con Giorgio Ruffolo, che, da buon socialista lombardiano ed economista di formazione keynesiana, è da sempre attento ai risvolti umani, direi “percettivi”, dei fenomeni economici. Il discorso, e questo capita sempre quando si colloquia con lui, anche quando parte da un tema specifico finisce per spaziare nei mari non troppo quieti dell’economia: parlare oggi d’inflazione significa dunque tirare dentro al ragionamento la globalizzazione, Maastricht, l’economia ridotta a “grammatica dell’arricchimento”, il trionfo della finanza e la latitanza della politica nel governo di fenomeni sempre più complessi.

Incontriamo Ruffolo nella sede del Cer, il Centro europeo ricerche, che dirige dal 1994, dopo essere stato il primo ministro dell’Ambiente italiano (che ha guidato tra 1987 e 1992) e nel 1962 segretario generale per la Programmazione economica sotto il ministero del Bilancio: sono gli anni della celebre Nota aggiuntiva, sicuramente tra i testi chiave del moderno riformismo economico. L’economista è appena tornato dal Festival della letteratura di Mantova, dove ha partecipato a un incontro con il giornalista Luca De Biase dal titolo significativo: “Un capitalismo ben temperato”: “C’era tantissima gente – racconta visibilmente soddisfatto –. È sicuramente un bel segnale che in questo paese ci si interessi così tanto a temi di tale portata”. Per Ruffolo, che nella sua carriera ha sempre intrecciato la riflessione economica con l’impegno e la passione politica per un’economia che non dimentichi i concreti bisogni delle persone, la risposta alla nostra domanda sull’inflazione è abbastanza semplice: “È vero – dice – che negli anni di cui lei parla il tasso d’inflazione era ben superiore a quello attuale e questo era considerato quasi fisiologico. Penso che ciò avveniva perché all’epoca si viveva in una situazione ben diversa da quella odierna: c’era un clima di attesa positiva, che lasciava aperte prospettive importanti e vaste di una crescita che avrebbe avuto ricadute positive per tutti. In questo contesto l’alta inflazione veniva perlopiù considerata come un costo da pagare in cambio di una prospettiva certa di crescita che avrebbe, insisto, giovato a tutti. Oggi l’umore corrente è ben diverso. Siamo in una situazione di stagnazione, quindi l’inflazione è percepita solo come un costo da pagare”.

Il Mese Negli anni ottanta sorse un dibattito sugli effetti “redistributivi” dell’inflazione, tra chi sosteneva che essa colpiva soprattutto i ceti deboli e chi, invece, non era d’accordo con questa analisi. Qual è la sua lettura rispetto all’oggi?

Ruffolo Guardi, su questo non ho dubbi. L’inflazione ha sempre esiti redistributivi e colpisce sempre i ceti più deboli. Quello che conta, ripeto, è come essa viene accolta. Se chi la deve pagare avverte intorno a sé un clima di crescita ed espansione, può sperare di non subirne danni, grazie a quella crescita di cui può godere.

Il Mese C’è una corrente di pensiero economico – keynesiano – secondo cui una certa “dose” d’inflazione è non solo accettabile, ma in fondo non dannosa per l’economia di un sistema. Si tratta di una ricetta che molti governi in passato hanno applicato. Perché, a un certo punto, il controllo dell’inflazione è diventato priorità assoluta – quasi dogma – delle politiche economiche?

Ruffolo Questa priorità è il prezzo che si è dovuto pagare per Maastricht. Si sapeva che per riuscire a raggiungere tutti insieme l’obiettivo di una moneta forte come il marco (perché l’euro è erede diretto del marco: questo non va mai dimenticato) bisognava stare alle condizioni poste dalla Bundesbank. Vale a dire: l’inaugurazione di una politica economica restrittiva. È su questa missione, che prevede un controllo strettissimo dell’inflazione, che si è costituita e ha continuato a lavorare la Bce. Una missione ben diversa, per esempio, da quella che da sempre caratterizza l’opera della Federal Reserve statunitense.

Il Mese Quali sono, da questo punto di vista, le differenza maggiori con la banca centrale americana?

Ruffolo Per statuto la Federal Reserve ha due obiettivi da perseguire: la stabilità del sistema e lo sviluppo dell’economia. Il primo è di tipo restrittivo, il secondo espansivo. La Bce ha un solo obiettivo restrittivo, e questo spiega perché in Europa non c’è posto per una politica espansiva. Questo aspetto istituzionale ha un peso rilevante e giustifica anche le politiche degli Stati europei.

Il Mese In che senso?

Ruffolo Nel senso che mentre prima, come è noto, gli Stati potevano ricorrere all’inflazione per promuovere lo sviluppo, ora questo non è più possibile. E devono così accettare il vincolo dell’inflazione imposto loro dalla Bce. Un vincolo che prima di Maastricht non esisteva.

Il Mese E questo secondo lei è negativo?

Ruffolo Assolutamente sì. Del resto Jaques Delors aveva tentato di inserire tra i vincoli di Maastricht alcuni impegni precisi della nuova Europa su occupazione e sviluppo. Ma la proposta non è stata accolta, così come non è stato mai adottato il piano dello stesso Delors che proponeva di aprire un mercato finanziario europeo di prestiti che avessero l’obiettivo di sostenere la costruzione di grandi infrastrutture europee.

Il Mese Un’occasione mancata…

Ruffolo Certo. Avremmo in tal modo avuto una politica economica espansiva capace di compensare gli effetti della politica monetaria della Bce. Invece, in tutti questi anni la politica fortemente restrittiva è rimasta, mentre in Europa non c’è stato alcun progresso in materia di politica fiscale, investimenti e sviluppo.

Il Mese Questa politica però ha avuto anche il merito di salvaguardare la forza dell’euro…

Ruffolo Non sono mai stato d’accordo con quanti pensano che l’euro forte sia una iattura. Credo tuttavia che esso debba rappresentare l’occasione per finanziare un vero e proprio sviluppo europeo. Questo non accade e allora, per tornare al discorso da cui il nostro ragionamento è partito, all’inflazione rischia ora di sommarsi la stagnazione. Con gli effetti che tutti conosciamo: il clima imperante, oggi, è quello della contrazione e non dello sviluppo; questo produce scarsi incentivi, anche psicologici, al rischio economico, all’intrapresa. Già Keynes sapeva bene quanto contino le aspettative nell’indirizzare il progresso economico.

Il Mese Secondo lei, dunque, la Bce ha avuto un ruolo significativo, e non positivo, nell’accompagnare l’economia in questa direzione.

Ruffolo Penso proprio di sì. E anche per un altro motivo. Mentre l’inflazione di tipo “tradizionale” è stata in fondo contenuta entro limiti accettabili, c’è un altro tipo di inflazione che è stata non solo consentita ma addirittura promossa con il beneplacito e il concorso delle banche centrali. Mi riferisco all’inflazione finanziaria, che è cosa ben diversa da quella che riguarda i prezzi dei servizi e dei beni di mercato e che ha a che fare piuttosto con i titoli azionari, cioè con le promesse di reddito futuro. Gli esiti sono ben diversi. Mentre, ad esempio, un aumento del prezzo della pasta produce una riduzione dell’acquisto della stessa, al contrario l’innalzamento del prezzo dei titoli genera un incremento della domanda: la gente che li acquista è invogliata a farlo pensando che in futuro il loro valore crescerà ancora di più. È il meccanismo che genera le bolle finanziarie, che si è affacciato negli anni novanta, e che ci ha portato alla crisi di questi ultimi mesi, quella dei mutui subprime che non accenna a concludersi e che desta forti preoccupazioni.

Il Mese Dunque secondo lei è questo tipo d’inflazione a essere davvero pericoloso?

Ruffolo Sì, sicuramente più di quella tradizionale che riguarda beni e servizi. Perché si tratta di una deriva che può tradursi in una crisi di carattere generale. Queste promesse di redditi futuri riguardano quella mercatizzazione del tempo che rappresenta, sul piano temporale, il corrispettivo di ciò che sul piano spaziale chiamiamo globalizzazione.

Il Mese In un suo celebre e assai discusso saggio del 1973 Federico Caffè scriveva che le Borse andavano chiuse…

Ruffolo Caffè amava provocare, ma era assai lucido, in tempi non sospetti, nel denunciare con virtù profetica la degradazione dell’economia da scienza sociale a geometria dell’arricchimento. Non bisogna dimenticare che l’economia è nata dalla filosofia e dall’etica. Adam Smith era professore di Etica e prima della Ricchezza delle nazioni scrisse una Teoria dei sentimenti morali. Questa sua fondamentale vocazione purtroppo l’economia l’ha persa, per diventare una semplice grammatica dell’arricchimento. E così oggi assistiamo a un forte decadimento della scienza economica.

Il Mese In questo contesto, certo non ottimistico, che lei dipinge si può dire che, oltre la vulgata degli anni ottanta e novanta, oggi c’è bisogno di più politica per il governo dell’economia?

Ruffolo Penso di sì. Il ruolo insostituibile della politica deve essere proprio quello di dirigere l’economia. Al contrario assistiamo alla continua prevaricazione di quest’ultima sulla prima. Tanto più che il processo in corso è doppio. Non solo, infatti, la politica è schiacciata dall’economia ma, all’interno di quest’ultima, prevale la finanza. È la caratteristica principale di quello che con grande efficacia Edward Luttwak definisce “turbocapitalismo”. Un capitalismo sempre più indirizzato verso i profitti piuttosto che sugli investimenti ma che ha in sé dei limiti enormi: se questo rapporto diventa troppo sproporzionato in favore dei primi, infatti, produce inflazione finanziaria, perdita e spreco di risorse.

Il Mese Lei è uno studioso della storia del capitalismo. C’è stato un momento nella storia dell’Occidente paragonabile a questo per interdipendenza delle relazioni economiche?

Ruffolo Sicuramente c’è stato quello, peraltro già debitamente segnalato da Marx, della globalizzazione della seconda metà dell’Ottocento che si tradusse nel colonialismo e la cui crisi portò alla prima guerra mondiale. Anche all’epoca si assistette a una grande espansione del mercato globale, naturalmente molto meno importante di quella che si è scatenata dopo gli anni settanta del secolo scorso. La differenza sta nel fatto che quello dell’epoca era un capitalismo industriale, mentre quello di oggi è di tipo finanziario e dunque, per tutto ciò che abbiamo detto finora, molto più rischioso. Inoltre, a un aumento dell’interdipendenza dovrebbe corrispondere un incremento dei controlli. Ciò che non avviene in questo nostro tempo, dove all’avanzata della globalizzazione non ha corrisposto un adeguato governo mondiale. Abbiamo un mercato mondiale ma non un governo mondiale. E questo crea un varco molto pericoloso. È il varco tra la potenza (dell’economia) e il potere (della politica). È in questo varco che la speculazione s’infila.