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Il 2025 è stato un anno mortale per i giornalisti. 67 professionisti dei media sono stati uccisi dal 1° dicembre 2024, 37 le vittime delle forze armate regolari o non regolamentate, 16 della criminalità organizzata. Quasi la metà, ovvero il 43 per cento, è stata uccisa a Gaza per mano dell’esercito israeliano. In Ucraina l'esercito di Putin continua a prendere di mira anche gli operatori della press nazionali e internazionali. E anche il Sudan si è rivelato una zona di guerra particolarmente pericolosa per la professione.
Odio e impunità
I dati arrivano dall’ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières che denuncia: il numero dei giornalisti uccisi nel mondo torna a crescere a causa dell’odio e dell’impunità. “La critica ai media è legittima e deve essere una forza di cambiamento per garantire la sopravvivenza di questa funzione sociale – dichiara Thibaut Bruttin, direttore generale di RSF -, ma non deve mai scivolare nell'odio per i giornalisti, che nasce in gran parte o è alimentato dalla volontà tattica delle forze armate e dei gruppi criminali. Ed è qui che porta l'impunità: il fallimento delle organizzazioni internazionali, che non sono più in grado di far rispettare la legge sulla protezione dei giornalisti nei conflitti armati, è la conseguenza di un calo del coraggio dei governi che dovrebbero attuare politiche pubbliche di protezione”.
Da testimoni privilegiati della storia, i giornalisti sono gradualmente diventati vittime collaterali, testimoni scomodi, merce di scambio, pedine nei giochi diplomatici, uomini e donne da eliminare. “Attenzione alle scorciatoie giornalistiche – afferma Bruttin -: nessuno dà la vita per il giornalismo, gli viene rubata; i giornalisti non muoiono, vengono uccisi”.
503 in prigione
Il Messico, Paese afflitto dai cartelli della droga, è il secondo più pericoloso al mondo per i giornalisti, con nove reporter assassinati. Ma tutta l’America Latina si sta “messicanizzando”: nelle Americhe si conta il 24 cento dei professionisti uccisi a livello globale. Per mettere a tacere la stampa non si usa solo la morte ma molti altri abusi come la detenzione. 503 sono incarcerati in tutto il mondo. La prigione più grande è la Cina (121), mentre la Russia (48), che si è unita alle prime tre davanti alla Birmania (47), detiene il maggior numero di giornalisti stranieri: 26 ucraini.
In Siria sono 37 i giornalisti attualmente dispersi: molti erano tenuti in ostaggio dallo Stato islamico o prigionieri di Bashar al-Assad, ma la loro cattura non ha ancora portato al ritrovamento. Venti giornalisti sono ancora tenuti in ostaggio in tutto il mondo. Nel 2025 i ribelli Houthi hanno rapito altri sette giornalisti, rendendo lo Yemen il Paese con il più alto numero di giornalisti rapiti negli ultimi 12 mesi.
Italia al 49° posto
Se nel mondo è stata dichiarata una guerra alla libertà di stampa, come ha affermato la presidente della Federazione internazionale dei giornalisti Dominique Pradalié, in Italia non ce la passiamo per niente bene. Il rapporto di Reporter Sans Frontières ci mette al 49° posto nella classifica, tre posizioni in meno rispetto all’anno scorso.
Tra i principali rischi, secondo Rsf, le minacce da parte di organizzazioni mafiose e criminalità, l’azione violenta e intimidatoria da parte di gruppi politici estremisti, le gravi violazioni del lavoro sottoposto a sorveglianza, con citazione specifica del caso dello spyware “Graphite” e il caso di Sigfrido Ranucci, obiettivo di un attentato, quando due delle auto di famiglia sono state fatte esplodere nel giardino di casa.
Poche libertà
Poi ci sono le querele bavaglio che aumentano, un consiglio di amministrazione di un servizio pubblico come quello della Rai nominato con una legge incostituzionale, una normativa europea sulla libertà di informazione, European Media Freedom Act, di fatto ignorata e inapplicata in Italia, uno sciopero dei giornalisti per il rinnovo del contratto scaduto da troppo tempo, e per la dignità della professione, osteggiato in tutti i modi dagli editori.
Uno sciopero a cui hanno aderito la grande maggioranza delle redazioni, anche in quei giornali in cui ci sono state pressioni e minacce da parte degli editori, dei direttori e dei loro stretti collaboratori, che hanno forzato la mano mandando in edicola quotidiani raffazzonati o pieni di contributi di esterni.
“Il Media Freedom Act è operativo ma in Italia non ce n’è traccia - afferma Giuseppe Giulietti, di Articolo 21 -. Per alcune materie ci vorrebbe una legge, come quella che impone l’autonomia della Rai dai governi, ma la proposta dell’esecutivo va nella direzione opposta. Stesso discorso per le querele bavaglio, che andrebbero contrastate ma le proposte che ci sono marciano dall’altra parte”.
Il caso Rai
La situazione della Rai è emblematica del livello di libertà di stampa nel nostro Paese. Da un anno è senza presidente, la commissione di vigilanza non riesce a riunirsi perché la maggioranza di governo fa mancare il numero legale, e l’altro giorno c’è stata l’ennesima fumata nera. Questo meccanismo volontariamente inceppato priva la bicamerale della possibilità di svolgere anche la minima parte del suo lavoro istituzionale.
“Dopo l’attentato a Ranucci? Grandi dichiarazioni di solidarietà, ma molte erano finte – prosegue Giulietti -. Si scopre che l’Autority per la privacy voleva spiare i dipendenti per sapere chi dava informazioni ai giornalisti? Ma le dimissioni arrivano dopo la denuncia dei lavoratori. In Italia ci sono violazioni sistematiche delle libertà fondamentali di espressione, associazione e manifestazione, come l’Ungheria di Orbán. Ma nessuno se ne preoccupa, protesta, scende in strada. Solo la Cgil, al cui sciopero generale del 12 dicembre infatti come Articolo 21 aderiamo e partecipiamo perché i diritti sociali, civili e di libertà, i salari e le pensioni sono temi strettamente correlati”.
Come l’Ungheria di Orban
La classificazione è ufficiale. E la dà il rapporto di Civicus Monitor: non siamo più un Paese con libertà civiche “limitate”, ma un Paese con spazio civico “ostruito”. E il paragone con Orban fino a pochi anni fa impensabile, oggi riflette un deterioramento strutturale della nostra democrazia.
Secondo Civicus, il peggioramento della situazione è imputabile a una serie di scelte politiche e normative che hanno progressivamente eroso gli spazi democratici. A partire dall’approvazione del ddl sicurezza che introduce un impianto sanzionatorio severo contro forme di dissenso pacifico, colpisce in modo sproporzionato attivisti climatici, organizzazioni antirazziste, mobilitazioni in solidarietà con la Palestina, ong e giovani attivisti, creando un clima di paura e delegittimazione.
“Questa regressione democratica avanza a piccoli passi, con norme, campagne diffamatorie, controlli illegittimi, delegittimazione culturale del dissenso – conclude Giulietti -. E il declassamento dell’Italia è un monito, e dobbiamo reagire a questa situazione”.






















