Il 9 gennaio 1950 a Modena si protesta contro la serrata e i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. Le forze dell’ordine sparano sulla folla provocando la morte di sei lavoratori: Angelo Appiani, ucciso proprio davanti alle Fonderie; Renzo Bersani, colpito a morte lontano dagli scontri mentre cerca di fuggire; Arturo Chiappelli, raggiunto dai proiettili della polizia vicino alla Fonderia; Ennio Garagnani, colpito a morte lontano dagli scontri; Roberto Rovatti, colpito con i calci dei fucili della celere, gettato in un fosso e finito con un colpo sparato a distanza ravvicinata e Arturo Malagoli, colpito davanti al passaggio a livello della vicina ferrovia.

L’eccidio di Modena è l’ultimo di una tragica serie. Il 30 ottobre del 1949, a Melissa in Calabria, la Celere di Scelba scarica le sue armi sugli occupanti di un fondo del marchese Berlingieri, proprietario di 2 mila ettari di terra, lasciando uccise sul terreno tre giovani vite. Nelle settimane successive, a Torremaggiore (Puglia), un commissario ex repubblichino ordina la carica contro una manifestazione di braccianti, causando due morti e numerosi feriti (la sarta Giuseppina Faenza morirà a causa dello spavento). Pochi giorni dopo, a Montescaglioso, in provincia di Matera, ancora dei braccianti poveri che avevano occupato pezzi di latifondo entrano nel mirino dell’azione repressiva. Risultato: altri due occupanti uccisi. 

Nella città emiliana accorrono subito dopo l’eccidio i vertici nazionali di Pci, del Psi e della Cgil, mentre l’Unità invia sul posto un giovane cronista del quale si sentirà in futuro molto parlare, Gianni Rodari.

Nella sua orazione funebre riportata nella sua interezza sul quotidiano del Partito comunista il 12 gennaio Palmiro Togliatti dirà:

Alle salme dei sei cittadini di Modena caduti nelle vie di questa città il giorno 9 gennaio, ai familiari affranti dal lutto, alla città intera, che abbiamo visto stamane ancora impietrita dallo stupore e dal dolore, ai lavoratori di Modena e di tutta l’Emilia qui convenuti e qui presenti, porto l’espressione della solidarietà e del cordoglio profondo del Partito comunista italiano (…) Prima di voi, nelle stesse condizioni, per le stesse cause, altri lavoratori sono caduti e continuano a cadere. La fine vostra è indice di una tragedia che investe tutto il popolo, che tocca la vita stessa della nazione italiana. Ed allora parlare bisogna, e chiaramente bisogna parlare; e debbono parlare chiaramente, prima di tutto, i partiti e gli uomini che si sentono legati al popolo da inscindibili legami, e che sentono rivolgersi verso di loro la fiducia e l’attesa dei lavoratori. Bene hai fatto, o città di Modena, città eroica e gloriosa, medaglia d’oro della guerra per la libertà d’Italia, madre di lavoratori coraggiosi e disciplinati; bene hai fatto ad avvolgere le bare di questi tuoi figlioli caduti, nel drappo dei colori nazionali. Questo drappo e questi colori sono il simbolo della nostra unità, dell’unità della patria e dì tutti i cittadini italiani nella difesa dei valori essenziali della nostra esistenza. Tutta la nostra vita, tutta la vita e tutta la lotta del nostro partito, ci fanno fede che io non vorrei pronunciare, in questo momento, altre parole che non fossero un appello severo ad unirsi tutti, davanti a queste bare, per deprecare ciò che è accaduto, per respingere questa macchia dalla realtà della vita del nostro paese. Ma voi, voi siete stati uccisi! In uno Stato che ha soppresso la pena di morte anche per i più efferati tra i delitti, voi siete stati condannati a morte, e la sentenza è stata su due piedi eseguita nelle vie della città, davanti al popolo inorridito. Chi vi ha condannati a morte? Chi vi ha ucciso? Un prefetto, un questore irresponsabili e scellerati? Un cinico ministro degli interni. Un presidente del consiglio cui spetta solo il tristissimo vanto di aver deliberatamente voluto spezzare quella unità della nazione che si era temprata nella lotta gloriosa contro l’invasore straniero; di aver scritto sulle sue bandiere quelle parole di odio contro i lavoratori e di scissione della vita nazionale che ieri furono del fascismo e oggi sono le sue? Voi chiedevate una cosa sola, il lavoro, che è la sostanza della vita di tutti gli uomini degni di questo nome. Una società che non sa dare lavoro a tutti coloro che la compongono è una società maledetta. Maledetti sono gli uomini che, fieri di avere nelle mani il potere, si assidono al vertice di questa società maledetta, e con la violenza delle armi, con l’assassinio e l’eccidio respingono la richiesta più umile che l’uomo possa avanzare: la richiesta di lavorare (…).

“Il giorno in cui venne ucciso - racconterà anni dopo Marisa Malagoli Togliatti, sorella di Arturo - ricordo che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata. Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c’era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c’era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all’obitorio dell’ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti (…) Togliatti, venuto a Modena in seguito all’eccidio, decise con Nilde Iotti di aiutare una delle famiglie coinvolte. La scelta cadde su di noi. Il tramite fu l’onorevole Gina Borellini, una partigiana medaglia d’oro alla Resistenza, che in guerra aveva perso un arto. Anche dietro spinta dei miei fratelli e delle mie sorelle, fu stabilito, con una specie di accordo reciproco, che io andassi a Roma a studiare. Quello dello studio era un mito dei miei fratelli che non avevano potuto andare oltre la quinta elementare: erano consapevoli che andare a scuola era il mezzo per cambiare la propria condizione. L’idea che io potessi studiare fu anche di incentivo per mia madre che era restia a lasciarmi andare. In realtà, l’allontanamento è poi stato relativo, sono sempre stati mantenuti molti contatti, sia perché io tornavo regolarmente a Modena, sia perché qualcuno della mia famiglia veniva a Roma. Da allora ho vissuto sempre con Palmiro Togliatti e Nilde Iotti. Prima che io compissi i diciotto anni, Togliatti, riuscì, con un’azione legale, a darmi il suo cognome. Infatti io mi chiamo Malagoli Togliatti. La scelta era caduta su di me perché io ero la più piccola e avevo appena cominciato la scuola, ero in prima elementare. Fui certamente privilegiata. In ogni caso, i rapporti tra le due famiglie sono rimasti sempre molto stretti Anzi, paradossalmente, per Nilde, specie dopo la morte di Togliatti, i Malagoli sono stati quasi l’unica famiglia di riferimento”.

Quando lo Stato sparava e i comunisti non mangiavano i bambini….