Il linguaggio non è neutro. E fa danni, enormi. Nemmeno di fronte al femminicidio di una ragazza di 14 anni i media sono stati capaci di usare parole diverse, parole giuste e rispettose. Anzi. Ancora una volta abbiamo assistito alla solita narrazione tossica, che invece di condannare con chiarezza, scivola – più o meno consapevolmente – nella giustificazione, nella sfumatura ambigua, nel racconto piegato dalla cultura patriarcale.

Martina non è solo un nome in un titolo di giornale, né un numero da aggiungere alle statistiche. Martina Carbonaro era una persona. Aveva 14 anni. Non ha alcuna colpa, neanche quelle che certi titoli insinuano tra le righe: di averlo lasciato, di averlo incontrato per l’ultima volta, di aver “scatenato” la rabbia di chi non ha mai accettato di vederla libera. Le colpe non sono mai della vittima. La responsabilità è soltanto di chi ha ucciso e della cultura dello stupro in cui stiamo crescendo i nostri figli.

Ed è importante chiamarlo con il suo nome: femminicida. Non un “ex fidanzato”, non un “giovane disperato”, non un ragazzo “accecato dal dolore”. È un femminicida. Perché non si tratta di un omicidio qualunque, ma dell’eliminazione violenta di una ragazza che voleva essere libera. Martina non era “sua”, e questo lui non l’ha sopportato. L’ha uccisa perché non poteva più controllarla. Perché non accettava che lei fosse libera. Non l’ha vista come una persona, ma come un oggetto, un’estensione della sua volontà, un complemento oggetto del verbo possedere.

“L’ho uccisa perché mi ha lasciato”, ha detto il femminicida. I giornali e i telegiornali hanno riportato fedelmente questa frase, trasformandola in titoli. Dovere di cronaca? No. È un errore. Perché il diritto di cronaca non è un obbligo cieco, ma una responsabilità. Le parole vanno scelte. E oggi più che mai dobbiamo dirlo chiaramente: basta con una narrazione giornalistica che assolve, attenua, umanizza il carnefice e mette sotto accusa la vittima.

“Martina ha accettato di vederlo ancora”, si legge nelle cronache. Come a suggerire che lei “se l’è cercata”. No. Basta. Non facciamo la morale a una ragazza di 14 anni. Lo avremmo fatto tutte. E anche se non lo avesse incontrato, lui l’avrebbe trovata comunque. Nessuna chiesa, nessuna farmacia, nessuna “prudenza” l’avrebbe salvata da chi aveva già deciso di uccidere. Perché non è stato un raptus. È stata una scelta lucida, feroce, patriarcale.

Il linguaggio patriarcale nei media non è solo una questione di stile: è un problema culturale. Quando un titolo giustifica, quando un servizio umanizza il colpevole (“era distrutto, non dormiva la notte”), quando una foto è solo un acchiappa click, si legittima una mentalità tossica. Si educano – ancora – generazioni intere a pensare che il possesso sia amore, che il controllo sia passione, che l’abbandono giustifichi la violenza.

Il linguaggio contribuisce a creare e riflettere le norme sociali. I media hanno il potere di influenzare le percezioni collettive e le dinamiche di potere, quindi il modo in cui si parla di femminicidi ha effetti tangibili.

Serve un cambio di passo. Serve una rivoluzione nel linguaggio, perché il modo in cui raccontiamo i femminicidi dice chi siamo e in che società vogliamo vivere. Per Martina, per tutte.