Per comprendere lo stato attuale dell’economia del Mezzogiorno e le sue prospettive future non basta discutere dei problemi interni a quei territori, come suggerisce una lettura semplicistica e intrisa di malcelata diffidenza che è la cifra caratteristica del discorso pubblico sul Meridione d’Italia. Il Mezzogiorno fa parte di un Paese che non riesce più a crescere, all’interno di un’unione di Stati dalle economie estremamente differenti e i cui percorsi di crescita sono divenuti ancora più divergenti in seguito all’impatto violento con la crisi. È da qui che bisogna per forza di cose partire per comprendere cosa non funziona e provare a invertire la rotta.

A livello europeo, lo shock asimmetrico della crisi (con Paesi letteralmente travolti, come la Grecia, e altri in crescita sostenuta, come quelli dell’Europa orientale) è sfociato in una ripresa divergente nel periodo immediatamente successivo. Il gruppo dei Paesi “Core” (Germania, Francia, Benelux, Austria, Finlandia) ha registrato un tasso di crescita media annua dell’1,5% nel periodo 2013-2018, mentre i Paesi dell’Europa orientale hanno addirittura registrato una crescita nello stesso periodo del 3,4% medio annuo. Al contrario, la sponda Sud d’Europa, colpita dalle misure d’austerità e alle prese con un debito pubblico crescente, ha registrato una crescita media annua di appena l’1%.

In questo contesto, L’Italia ha fatto anche peggio, registrando uno striminzito 0,41% annuo di crescita media tra 2013 e 2018. La prima difficoltà del Mezzogiorno è quindi strettamente collegata a un blocco di Paesi che hanno sofferto maggiormente la crisi e a un Paese in particolare, il nostro, in cui forse la crisi, come attestano anche le previsioni sul Pil 2019-2020, si sta trasformando in un’altrettanto pericolosa “crescita zero”.

All’interno di questo quadro si innesta il discorso sul dualismo economico italiano, tra un Centro-Nord che resiste puntando quasi tutto sulle esportazioni e l’integrazione economica in qualità di subfornitore dell’economia renana, e un Sud industrialmente desertificato, debole dal punto di vista delle infrastrutture e alle prese con un mercato interno depresso. Partendo dal presupposto che la “ripresina” italiana è iniziata soltanto nel 2014, il tasso di crescita medio annuo del Pil del Centro-Nord si è attestato all’1,2% medio annuo, mentre il Mezzogiorno è cresciuto appena dello 0,80% medio annuo, con differenze molto marcate tra regioni.

Questa differenza, unita a un contesto europeo non favorevole alla convergenza economica territoriale, ha di fatto esacerbato lo storico dualismo economico italiano. Come sottolineato da esponenti del panorama accademico italiano e in particolare da autori come Forges Davanzati, Giannola e Realfonzo, l’esistenza di un effetto di polarizzazione evidenzia come, una volta generato un cluster di imprese in un territorio, tale area è in grado di attrarre investimenti e manodopera qualificata. L’oramai trentennale assenza di politiche pubbliche strutturate per il Mezzogiorno, in combinato con gli effetti della crisi, ha agito come acceleratore di questo processo di polarizzazione, che interessa particolarmente il nuovo triangolo industriale Lombardia-Veneto-Emilia.

Come conseguenza di ciò, l’emigrazione dal Sud verso il Nord del Paese ha nuovamente raggiunto proporzioni drammatiche. Secondo lo Svimez, negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Mezzogiorno definitivamente quasi un milione di residenti, di cui un quinto laureati e la metà giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni. Ma l’effetto polarizzazione trova conferma anche nell’analisi delle variazioni di flussi degli investimenti privati, che al Sud in un decennio sono diminuiti del 40%, contro il -20% fatto registrare dal Nord. Il quadro è inoltre esacerbato da una generalizzata e drammatica contrazione degli investimenti pubblici nel Paese (-30% tra 2007 e 2016) che contribuisce ad aggravare il divario Nord-Sud.

Questo contesto di stagnazione senza fine ha certamente impattato sulle banche e in particolare sull’erogazione del credito. Il contesto italiano dell’ultimo decennio è caratterizzato dal deleveraging generalizzato sul credito (-205 miliardi di stock di impieghi tra 2011 e 2017) e da un vertiginoso aumento dei depositi giacenti. Tuttavia, anche nel settore, le differenze tra Centro-Nord e Sud sono decisamente marcate. A fine 2018 nel Mezzogiorno lo stock degli impieghi è inferiore di 13 punti percentuali rispetto al 2011. Come se ciò non bastasse, il rapporto tra impieghi e depositi è il più basso tra tutte le aree del Paese, con soli 76 centesimi di credito erogato per ogni euro di depositi, contro la media nazionale di 0,95 per ogni euro, nonostante l’incremento degli ultimi anni dei depositi in Italia sia nettamente superiore al Centro-Nord.

Lo stesso comparto della raccolta indiretta, non essendo legato a limiti di tipo territoriale, veicola la quota parte di investimenti che rimangono in Italia verso titoli e obbligazioni di aziende quotate e/o ad alto contenuto tecnologico, sfavorendo un’area del Paese come il Sud, dove non ci sono direzioni generali di aziende che fanno parte del Ftse-Mib e dove le aziende sono più piccole e di solito più labour-intensive di quelle del Centro-Nord. Non solo. Al quadro del dualismo creditizio va aggiunto un tassello fondamentale, quello del controllo sui processi del credito, che vede il Mezzogiorno, oltre che privo di grandi banche con sede principale nel suo territorio, anche alle prese con un lento, ma inesorabile meccanismo di centralizzazione dei poli di alta specializzazione verso il Nord e, soprattutto, verso l’area di Milano.

Se è vero, come questi dati sembrerebbero dimostrare, che la divergenza tra Paesi e tra i territori all’interno degli stessi è diventato un problema cruciale che rischia di travolgere gli assetti europei, è evidente che è necessario immaginare un ritorno a un intervento pubblico basato su due pilastri: politica industriale e politiche di coesione territoriale. In particolare, per ciò che riguarda il comparto del credito, si rende necessario immaginare tutta una serie di interventi per aumentare lo stock degli impieghi e mobilitare risorse verso iniziative di riconversione ambientale e rilancio industriale e infrastrutturale del Sud del Paese, con l’obiettivo di determinare le condizioni per la creazione di un percorso che deve essere necessariamente condiviso con le parti sociali, di convergenza con il Nord, anche al fine di respingere definitivamente tutte quelle pulsioni centrifughe che sono riemerse negli ultimi anni, a cominciare dallo spinoso tema del regionalismo differenziato.

Futuro del Mezzogiorno, rilancio degli investimenti e del credito rappresentano un tema cruciale: la Fisac Cgil ne discuterà a Bari il 16 e 17 ottobre alla presenza del segretario generale di categoria Giuliano Calcagni, del segretario generale della Cgil Maurizio Landini, di amministratori locali, di esponenti del governo e di rappresentanti delle maggiori aziende bancarie e assicurative.

Il programma del convegno

Roberto Errico è ricercatore Isrf Lab