La Fase 2 è iniziata la scorsa settimana con il ritorno al lavoro di 4 milioni e mezzo di persone. Ma la rete ferroviaria italiana non è stata ancora messa alla prova del coronavirus. La maggior parte dei pendolari, infatti, è rimasta a casa in smart working, o si è mossa in automobile. A dirlo sono i primi dati forniti dagli enti privati concessionari del trasporto pubblico locale sui primi giorni di ripartenza. Sono stati 3.800 i treni in messi in circolazione ogni giorno da Trenitalia, il 50% circa del traffico abituale. Sui vagoni, a debita distanza, in media solo il 15% dei viaggiatori pre-emergenza. Nel Lazio, ad esempio, il 4 maggio hanno viaggiato in treno solo 47.908 persone. Si tratta del 15,3% dei passeggeri abituali. Stesso discorso vale per Trenord, che serve la martoriata Lombardia: 56% dei regionali in circolazione, e affluenza pari al 25% rispetto al pre-Covid, 30% nelle ore di punta. Che di problemi ce ne siano stati pochi è confermato anche dai vari comitati, spuntati come funghi negli ultimi anni per difendere i diritti di chi si muove per lavoro.

Quando la distanza non c’è
Il problema del distanziamento interpersonale in treno, insomma, è stato in sostanza rimandato al 18 maggio, quando riapriranno molte altre attività. O magari ancora a dopo, quando i lavoratori italiani saranno costretti a riprendere per davvero il loro trantran quotidiano. Con qualche eccezione, però. È il caso della famigerata tratta Roma-Lido dove, secondo il comitato locale i vagoni sono già pieni, le distanze difficili da mantenere, e non c’è nessuno a "conteggiare" i passeggeri. “Senza contare l'assoluta assenza di dispenser di disinfettanti. Il comitato locale, assieme a quello della Roma-Viterbo (un’altra tratta disgraziata del Lazio), ha incontrato più di una volta l'assessorato regionale ai trasporti per discutere delle misure messe in campo dalla Regione Lazio e delle proposte presentate dai pendolari: "Quello che abbiamo capito – dicono - è che i tavoli aperti sono molti ma non sanno ancora bene come gestire la situazione”.

Una situazione perfino peggiore si registra poi in Campania. Qui la più antica la ferrovia d’Italia, la Castellammare-Torre Annunziata, sparisce addirittura dalle mappe, e viene cancellata da Ferrovie italiane a causa del Covid. L’azienda ha infatti optato per la sostituzione del treno (che era una valida alternativa alla disastrata ex-Circumvesuviana gestita da Eav) con un pullman di linea, visto il numero esiguo di passeggeri in questa fase. Quei treni fino a Napoli e Pozzuoli funzionavano benissimo, e sarebbero stati senz'altro utili alla ripresa. Non hanno mancato di brontolare addirittura i pendolari lombardi, che durante l'audizione in commissione territorio del consiglio regionale, si sono lamentati che "l'offerta di Trenord a partire dal 4 maggio è al di sotto delle promesse che ha fatto Trenord stessa".

Pendolari di Serie A e Serie B
Ma non è certo un caso se le maggiori criticità all’alba della Fase 2 si siano registrate soprattutto sulla Roma-Lido, sulla Roma-Viterbo e sulla ex-Circumvesuviana, le tre linee che nell’ultimo rapporto “Pendolaria” di Legambiente si sono confermate le peggiori d’Italia. Quello che aspetterà i pendolari all’apertura di tutte le attività, infatti, sarà il consueto, vecchio servizio, che negli ultimi 10 anni è migliorato solo su alcune, rare tratte, mentre nella maggior parte dei casi è addirittura peggiorato.

Occorre partire dai numeri per comprendere la situazione del trasporto ferroviario in Italia e la dimensione del fenomeno del pendolarismo. Secondo Legambiente ogni giorno, prima del Covid, erano 5 milioni e 699 mila le persone che prendevano un treno per spostarsi ogni giorno. Nel 2018 il loro numero è aumentato di circa 45mila unità, così come quello di chi utilizza le linee metropolitane, con quasi 65 mila viaggiatori giornalieri. Erano 2 milioni e 919 mila, invece, i passeggeri del servizio ferroviario regionale, divisi tra 1,413 milioni che utilizzavano i treni di Trenitalia e 1,506 milioni quelli sui convogli degli altri 20 concessionari (tra cui 802 mila di Trenord in Lombardia, 215 mila di Cti in Emilia-Romagna, 190 mila per Atac nel Lazio, 142 mila per Eav in Campania).

Tagli nazionali, risparmio regionale 
La mappa dei pendolarismo italiano, però, non è certo omogenea. Se è aumentato il numero di persone che prendono il treno al Nord, è in calo il numero quelle che lo fanno nel Meridione. Il motivo è semplice: al Sud ci sono meno linee e meno treni. Ad esempio, la situazione per i 93 mila cittadini campani che ogni giorno sono costretti a prendere le ex linee Circumvesuviane (erano 107 mila nel 2010) è drammatica. Si è passati da 520 a 367 giornaliere corse nel 2016, con un calo dell’offerta del 30%. I treni regionali in tutta la Sicilia, poi, sono 486 al giorno contro i 2.560 della Lombardia, una differenza di quasi 5,3 volte, anche se a livello di popolazione la Lombardia conta solo il doppio degli abitanti siciliani.

C’è una ragione precisa per questi numeri. Negli ultimi dieci anni le risorse per il servizio di trasporto regionale, molto spesso, sono diminuite. I finanziamenti statali hanno visto un taglio tra il 2009 ed il 2019 pari al 21,5%, mentre i passeggeri crescevano di oltre l’8%. Il crollo nei trasferimenti è avvenuto con la finanziaria 2010 e la forbice di Tremonti, quando s’introdusse una riduzione a regime del 50,7% delle risorse, aprendo uno scenario d’incertezza nella gestione di contratti di servizio che, ancora oggi, è una delle cause principali del degrado che vivono i pendolari. Le risorse infatti, secondo Legambiente, continuano a essere del tutto inadeguate rispetto ai servizi necessari.

La colpa di questa situazione, però, è anche delle regioni, a cui da oltre 15 anni sono stati trasferiti i poteri sul servizio. La responsabilità sul contratto con i gestori dei treni avrebbe dovuto spingere a individuare nuovi fondi nel proprio bilancio, ma molto spesso questo non è avvenuto. La spesa delle regioni per il servizio ferroviario e il materiale rotabile, in questi 10 anni, è stata mediamente dello 0,33% del bilancio. Così, oggi, dove si è investito il servizio funziona, dove non si è messo mano al portafogli non funziona.

Quello che ci aspetta 
I comitati dei pendolari italiani, intanto, aspettano la vera ripartenza dopo il lockdown. La prima data utile sarà il 18 maggio. “Nonostante gli investimenti fatti in Lombardia, esistono ancora molte criticità, soprattutto in alcuni territori periferici – spiega Stefano Lorenzi del Comitato pendolari bergamaschi -. Questa emergenza non dev’essere la scusa per lasciar perdere il tema del trasporto pubblico, ma un'opportunità per svegliare le coscienze, e comprendere finalmente l’importanza di questo tema dal punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale”.

“Per uscire in maniera efficace dall’emergenza sarà indispensabile l'agilità delle istituzioni pubbliche e dei gestori privati nel reagire alla nuove esigenze - afferma poi Pietro Fargnoli dell'Associazione Roma-Cassino express (una linea percorsa da circa 42.000 persone ogni giorno) -. Ad esempio, oggi si sta usando un sistema per misurare ogni giorno quanti passeggeri ci sono effettivamente sui treni. Prima del Covid lo si faceva solo una al mese. Mantenere questo strumento permetterebbe di rimodulare l'offerta in maniera più rapida ed efficace.”

“Questo è il momento di ragionare in maniera seria – conclude Antonio Gallozzi di Legambiente Campania -. L’emergenza sanitaria ci ha fatto capire quanto sia importante il trasporto pubblico locale. E oggi serve una visione di lungo respiro, che non duri solo il tempo del mandato di un sindaco, di un presidente di Regione o di un presidente del Consiglio dei ministri. Abbiamo il dovere di immaginare come vorremo viaggiare tra 3, 5 o 10 anni, puntando su una mobilità urbana ed extraurbana sempre più condivisa e sostenibile. Sarà certo utile nella fase di riapertura, ma avrà anche vantaggi che potranno rendere più vivibili le nostre città per il futuro”.