Ciao Francesca,

Grazie per la tua lettera, impegnativa e non priva di ironia.

Dice l’osservatorio sullo smartworking che in Italia siamo passati, in meno di due settimane, da circa mezzo milione di lavoratori e lavoratrici in smartworking a più di 8 milioni.

Non serve essere studiosi per capire che questi numeri indicano una gigantesca operazione di ricorso al telelavoro e di trasferimento del lavoro a domicilio, avvenuta in modo improvviso ed improvvisato per effetto della pandemia.

Trasferimento avvenuto senza controllo anche per una scelta sbagliata del governo,
che in ogni Dpcm ha sollecitato il ricorso allo smartworking anche senza accordi,
previsti invece dalla legge sul lavoro agile.

Nei primi giorni poteva essere comprensibile data la rapidità di decisione del lockdown, ma che il governo continui a sostenerlo dopo due mesi non è tollerabile e proprio per questo il sindacato, unitariamente, chiede di tornare alla contrattazione.

Il senso di straniazione o, come ci ha detto una lavoratrice, di perdita di identità, derivano, credo, proprio dal non essere di fronte a smart working. Infatti è mancata la progettazione di una diversa organizzazione del lavoro, che permetta maggior autonomia alla lavoratrice o al lavoratore, ma ci si trova a fare lo stesso lavoro, in un contesto diverso e spesso più complicato, senza essere nelle effettive condizioni di svolgerlo.

Non si immagina la fatica del lavoro con il sottofondo “nella vecchia fattoria”, ed è cecità, non conciliazione, fingere che sia identico al lavoro in redazione.

Senza permettermi di commentare scelte che vengono effettuate nelle singole famiglie, non c’è dubbio che stiamo assistendo a un pericolosissimo revival degli stereotipi sull’angelo del focolare, che fanno arretrare drammaticamente la libertà delle donne e i diritti delle lavoratrici.

Il problema, che già avevamo, della diseguaglianza che deriva da un welfare basato sulla famiglia si somma ora alla chiusura dei servizi per l’infanzia, e indubbiamente va subito contrastata l’idea che lo smart working sia una politica di conciliazione per le donne: intanto perché cancella l’idea della condivisione e si torna alla genitorialità solo materna, in secondo luogo perché deprime e svalorizza la qualità del lavoro femminile.

Senza addentrarmi poi, nei diritti delle bambine e dei bambini a cui si presta pochissima attenzione ma che subiscono un’interruzione brusca dei loro processi di socializzazione e apprendimento.

Qualche piccola luce però c’è. Per effetto della mobilitazione delle donne si è riconosciuto che è inaccettabile una composizione delle task force che ignora il punto di vista delle donne. Certo sarà una soluzione tardiva, ma bisogna rilanciare e continuare perché si smentisca un altro stereotipo secondo cui gli uomini hanno una visione generale, mentre le donne specifica.  Dovranno rassegnarsi all’evidenza che siamo due parzialità e considerare l’una senza l’altra è semplicemente discriminatorio.

L’altra piccola luce è che il governo si appresta ad aprire un confronto con le parti sociali di regolazione dello smart working, che a nostro avviso deve trovare le opportune soluzioni nella contrattazione e nei contratti nazionali. Siamo fortemente intenzionate a contrastare questo rischio: diritto alla disconnessione, orari, servizi, condivisione sono le parole fondamentali per farlo.

Condividiamo la preoccupazione che Fase 1, 2 e quelle che seguiranno, condizionate dalla convivenza con il virus diventino una frontiera invalicabile per molte donne, divise tra poter lavorare e la cura dei figli o comunque delle famiglie. Non solo tu, ma altre potrebbero sentirsi costrette ad alzare bandiera bianca; vorrei dire che bisogna provare a sconfiggere il senso di solitudine.

Noi, con tutti i limiti e i ritardi ci siamo e vogliamo continuare ad esserci, perché la nostra libertà, la libertà delle donne è un progresso per tutte e tutti.

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