Parlamento esautorato, cittadini e cittadine confusi da una spessa cortina fumogena innalzata. Per non parlare delle reali conseguenze che l’approvazione del disegno di legge sull’autonomia differenziata condiviso da tutto il governo porterebbe con sé. Dall’imposizione fiscale nazionale arriverebbero più soldi a quei territori che storicamente hanno già ricevuto di più, e che pretendono anche di diventare proprietari delle parti di infrastrutture nazionali che risiedono sui propri territori. Lo sostiene l’economista dell’Università di Bari Gianfranco Viesti, che ha da poco dato alle stampe il volume Contro la secessione dei ricchi edito da Laterza. Diritti esigibili a seconda di dove si risiede, fine del contratto collettivo nazionale e indebolimento delle tutele e dei diritti di lavoratori e lavoratrici.

Il presidente del Veneto Zaia sostiene che affermare che l'autonomia differenziata sarebbe la secessione dei ricchi significa non avere argomenti per contrastare. Lei, professore, argomenta in un intero libro questo concetto. Ci spiega?
L'atteggiamento assolutamente prevalente dei sostenitori dell'autonomia regionale differenziata è quello di negare qualsiasi confronto nel merito. È l'intelligente tentativo politico di tenere la materia oscura, il meno comprensibile possibile per i cittadini e le cittadine fino all'approvazione delle intese fra il governo e le regioni. Perché appena si comincia a discutere del merito, delle competenze, dei meccanismi economici e delle conseguenze che può provocare, diventano evidenti gli enormi problemi che questo processo può provocare. L’autonomia differenziata del ddl Calderoli e le conseguenti richieste di Lombardia e Veneto sono talmente negative da meritarsi il termine di secessioniste.

Ci illustra perché?
Per due principali motivi. Il primo è la straordinaria ampiezza delle competenze richieste. Quelle di Veneto e Lombardia non sono delle proposte serie, mirate a organizzare meglio il riparto delle competenze tra Stato e Regione. Sono delle proposte tutte politiche: l’atteggiamento delle due Regioni è quello di chiederle tutte le materie possibili. Se venissero concesse tutte queste competenze si tratterebbe di una secessione di fatto. L'Italia, unico Paese al mondo, avrebbe al suo interno delle regioni-Stato in grado di governare da sole tutte le principali politiche pubbliche. Ma comodamente sarebbero parte di un Paese componente dell'Unione europea e della Nato. Non avrebbero, cioè, problemi di politica estera e di politica monetaria, ma sarebbero totalmente sovrani al proprio interno.

E poi?
Il secondo motivo per cui si tratta di richieste di tipo secessioniste è ciò che esse postulano: i cittadini che vivono in quelle regioni devono essere trattati meglio dei cittadini che vivono nelle altre. Tra le richieste di entrambe le regioni, infatti, quella di ottenere molte più risorse dal bilancio italiano di quelle che oggi vengono spese all'interno del loro territorio, per usarle come meglio credono, senza vincoli di destinazione. Le risorse del bilancio dello Stato, è bene ricordare, derivano dalla tassazione nazionale, cioè lo Stato tassa e le Regioni possono spendere questi soldi come meglio credono. Stabilire per principio che alcuni cittadini italiani, per il fatto di vivere in una certa regione, debbano essere trattati meglio di altri è, a mio avviso, un atteggiamento secessionista che mira a dividere su diversi livelli di diritti delle cittadine e dei cittadini italiani.

L’autonomia differenziata era stata subordinata all'approvazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. A questo fine era stata istituita una commissione, ma mi pare di capire che essa si sia perlomeno arenata. Alcuni dei suoi componenti si sono dimessi sostenendo non ci fossero le condizioni per portare a termine il compito assegnato. Cosa è successo?
L'attuale maggioranza, per rendere formalmente più digeribile questo processo secessionista agli occhi degli italiani, e soprattutto per non perdere voti nelle regioni del Centro-Sud, ha alzato una spessa cortina di fumo e cioè ha cominciato a parlare di Lep. I livelli essenziali delle prestazioni, nonostante il nome non adatto, sono un pezzo fondamentale del nostro contratto sociale nazionale: sono i diritti che devono essere riconosciuti a tutti i cittadini italiani, indipendentemente da dove vivono, quindi sono importantissimi. L’iniziativa del governo è solo fumo negli occhi perché mira esclusivamente a definirli, ma solo definirli non serve, devono essere finanziati e poi raggiunti. Non c'è assolutamente nulla nella proposta del governo che parli di finanziamento e di raggiungimento dei livelli essenziali, anzi è previsto che tutta l'operazione sia a costo zero per la finanza pubblica. E siccome sarebbe davvero esagerato pensare che in seguito a questa definizione dei livelli si spenda più al Centro-Sud e meno proprio nelle regioni più forti, è del tutto evidente che si tratti esclusivamente di una cortina fumogena. Insomma, definire i livelli essenziali è importante, è importante soprattutto però misurarli, finanziarli e stabilire dei percorsi per raggiungerli.

E peraltro abbiamo l’esempio dei Lea in sanità.
Esattamente. I Lea sono la definizione dei diritti in materia di prevenzione, di servizi territoriali e di servizi ospedalieri di cui tutti i cittadini e le cittadine dovrebbero godere. Sono definiti in maniera molto dettagliata, ma non sono finanziati. Ogni anno il ministero della Salute li misura e certifica che non sono raggiunti nella maggioranza delle regioni, soprattutto in quelle del Sud, ma a seguito della misurazione non succede assolutamente niente. Quindi sono un indicatore utile per capire la situazione, ma certamente non sono uno strumento di alcuna utilità per cambiare.

C'è chi afferma che per finanziare i Lep basterebbe fare riferimento alla spesa storica utilizzata fin qui per finanziare i diritti nelle varie regioni. Cosa non va nell’assumere la spesa storica come parametro di riferimento per l'autonomia differenziata?
Tarare i diritti sulla spesa storica significa fotografare le disparità esistenti, perché la spesa storica non nasce da una misurazione dei bisogni e dei diritti. E non lo dico solo io, l’Ufficio parlamentare di Bilancio l’ha scritto in atti ufficiali. Insomma, Veneto e Lombardia vogliono una cosa molto semplice: un trattamento da regioni a statuto speciale che ruota attorno al concetto di aliquota di compartecipazione, che sostanzialmente si traduce nel fatto che a queste regioni in futuro si offriranno molte più risorse rispetto a oggi. Non solo. C’è ulteriore richiesta di queste regioni, e su questo si è aggiunta anche la Puglia, di cui non abbiamo nessunissima notizia: quella di avere pezzi del patrimonio pubblico nazionale. In sostanza l'autostrada del sole fino al ponte sul Po diventerebbe di proprietà della Lombardia. Mi pare, se questo dovesse diventare realtà, il simbolo del crollo dell'unità nazionale

Il ddl Calderoli rischia di portare con sé un ulteriore elemento di frattura del Paese. Con l'autonomia nel campo dell'istruzione e della sanità, si rischierebbe di vedere saltare il contratto collettivo nazionale di lavoro per lavoratori lavoratrici di questi settori?
Assolutamente sì. Questa è una delle conseguenze che potrebbero produrre le richieste di Lombardia e Veneto.
Vorrei però dire in premessa che dobbiamo smettere di chiamarlo col nome di Calderoli, il ddl è stato approvato all’unanimità dal governo è quindi è più corretto chiamarlo disegno di legge Meloni. Insomma credo che sia bene richiamare alla loro responsabilità anche gli uomini e le donne di Fratelli di Italia. È il governo Meloni che sta proponendo al Parlamento di suicidarsi, cioè di votare un percorso per la concessione dell'autonomia che impedisce al luogo della rappresentanza e della sovranità popolare di discutere.  Poi, per stare al merito della domanda, tra le conseguenze dell'eventuale scellerata concessione alle regioni dell’autonomia in materia di istruzione e sanità, oltre che alla regionalizzazione della scuola e la definitiva morte del servizio sanitario nazionale, una delle tante importanti conseguenze di queste eventuali decisioni sarebbe un abbattimento molto forte dei diritti e dei poteri dei lavoratori e delle lavoratrici. La regionalizzazione comporterebbe la fine, non solo del contratto collettivo nazionale, ma anche della tutela che i lavoratori e le lavoratrici riescono ad avere dall'azione sindacale nazionale. Trovo veramente sorprendente che uno dei tre sindacati confederali nazionali non si accorga di questo e sia dall'inizio completamente silente su questo tema dell'autonomia differenziata, visto che farebbe un enorme danno anche alla sua attività di rappresentanza. Mi sto riferendo, naturalmente, alla Cisl.

Ma tutto questo che lei ci ha raccontato cosa c'entra con l'articolo 5 della Costituzione?
Dobbiamo premettere che tutto questo che vi ho raccontato non è che una piccola parte dei problemi a cui andremo incontro se il disegno del governo si realizzasse. Molti costituzionalisti sostengono che le due cose non si tengono: ovviamente la Corte costituzionale non può essere chiamata a una valutazione prima dell’approvazione del testo. Non solo, intelligentemente i sostenitori dell'autonomia differenziata hanno fatto attenzione per evitare bocciature preventive, tutte le specifiche norme attuative saranno emanate attraverso decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. Quindi chiamare in causa la Corte costituzionale potrebbe essere molto tardi rispetto a un processo che, quando avviato, difficilmente potrà essere fermato. Occorre fare di tutto per evitare che questo processo parta, nessuna autonomia differenziata deve essere concessa in tale contesto politico. Bisogna soprattutto raccontarlo alle cittadine e ai cittadini italiani del Nord, del Centro e del Sud che non sanno niente di questa storia e che invece dovrebbero essere perfettamente informati. A essere danneggiati non sarebbero solo i cittadini del Sud, ma quelli di tutto il Paese.