Luciana Romoli è stata la “bambina della Resistenza”, espulsa a otto anni da tutte le scuole del Regno per essersi ribellata alle leggi razziali che avevano colpito la sua compagna di banco ebrea1.

 Giovanissima le appare evidente e immediata la necessità della lotta per la libertà anche a costo della vita; entra così nella Resistenza, come staffetta.

A 12 anni ho falsificato i documenti per andare a lavorare in fabbrica, perché per andare a lavorare bisognava averne 14. Due anni dopo ho preso parte alla Resistenza come staffetta, ma il mio comandante partigiano non mi voleva, mi disse “Sei troppo piccola”. Un altro compagno partigiano intervenne dicendo “Ma se questa partigiana ha fatto la dura da quando aveva otto anni, prendila, non te ne pentirai”. Io appartenevo ad una famiglia di antifascisti, con uno zio confinato politico e un fratello di mia madre in galera a Regina Coeli, perché era antifascista ed era stato condannato a 5 anni. Quindi per me entrare nella Resistenza è stato facile. Ad avvenuta Liberazione e alla nascita della Repubblica, ho continuato a lottare per i diritti dei lavoratori, delle donne, specie delle giovani. Ho diretto l’associazione Ragazze in Italia e sono stata sindacalista della Camera del Lavoro di Roma insieme a Maddalena Accorinti. Dovete pensare che mi cacciavano via da tutte le fabbriche tessili dove lavoravo, perché portavo la mimosa insieme a una copia della Costituzione Repubblicana ciclostilata: mi cacciavano via dappertutto. Le attività politiche, sindacali, lavoro, studio e cura della famiglia mi hanno impegnata allo stesso modo come si sono impegnate centinaia e centinaia di donne con il loro contributo alla fondazione e alla crescita dell’Udi. Allora mancavano le scuole, mancava tutto.

Luce, partigiana per sempre

Partigiana per sempre, nel 2020 Luciana - a 90 anni suonati - decide di accogliere in casa uno studente rifugiato di 22, Abdelaziz, iscritto al terzo anno all’Istituto Tecnico Turistico, arrivato in Italia dal Gambia con il sogno di laurearsi.

 La loro convivenza inizia a fine maggio 2020 grazie a Refugees Welcome che, dopo la fine del lockdown, aveva lanciato un appello alle famiglie affinché ospitassero in casa i giovani rifugiati, per i quali trovare un affitto risultava sempre più difficile.

“La quarantena - raccontava a Repubblica - mi ha fatto capire ancora di più l’importanza di avere una casa, non solo come spazio fisico, ma anche affettivo. Per questo ho deciso di accogliere Abdelaziz. Non ho avuto timore di fare questa esperienza, sono abituata a stare con i giovani, perché da più di vent’anni vado nelle scuole a raccontare la mia storia di partigiana. Sono diventata staffetta per combattere la dittatura, la mia esperienza non è così diversa da quella di Abdelaziz”.

La partigiana e lo scrittore

 Una curiosità che forse non tutti conoscono: tra le tante cose, dopo la guerra, Luciana diventa anche segretaria tecnica della redazione de Il Pioniere. Proprio a lei Gianni Rodari dedicherà una delle sue filastrocche.

 “La Costituzione era già stata promulgata, compreso l’art. 21 - raccontava a Morena Moretti di Radio Fujiko - ma io fui arrestata per aver scritto su un muro: 'Pace e libertà'. I compagni mi avvisarono con un fischio dell’arrivo della polizia, ma io mi trattenni fino all’ultimo perché ci tenevo a mettere l’accento sulla A. E così mi arrestarono. Mi dovetti fare 10 giorni in custodia delle suore mantellate. Telefonai a mia madre dicendole che partivo per Napoli per una campagna elettorale. Quando mia madre riferì la notizia a Rodari, presso il quale già lavoravo, lui intuì la bugia e, al mio ritorno, mi chiese di spiegargli cosa fosse realmente accaduto. Gli raccontai tutto e nacque la filastrocca che si intitola L’accento sull’A”.

 O fattorino in bicicletta
dove corri con tanta fretta?”
"Corro a portare una lettera espresso
arrivata proprio adesso”.
"O fattorino, corri diritto,
nell’espresso cosa c’è scritto?”
“C’è scritto: Mamma non stare in pena
se non rientro per cena,
in prigione mi hanno messo
perché sui muri ho scritto col gesso.
Con un pezzetto di gesso in mano
quel che scrivevo era buon italiano,
ho scritto sui muri della città
"Vogliamo pace e libertà”.
Ma di una cosa mi rammento,
che sull’-a- non ho messo l’accento.
Perciò ti prego per favore,

va’ tu a correggere quell’errore,
e un’altra volta, mammina mia,
studierò meglio l’ortografia".



1 “Ero una ragazzina di Casalbertone - raccontava - quartiere popolare operaio (fabbriche tessili, metallurgiche, di lavorazione del legno, edilizia, presenti ferrovieri e tranvieri) che si trovava all’estrema periferia di Roma. Appartenevo a una famiglia antifascista, con uno zio incarcerato e poi mandato al confino ed un altro a Regina Coeli perché comunisti. (…) Il mio primo gesto politico risale al 1938, quando avevo otto anni, frequentavo la terza elementare femminile, perché a quei tempi non esistevano classi miste. La mia compagna di banco e amica del cuore Deborah era ebrea ma per lei e per le nostre compagne ciò non rappresentava differenza (…) Purtroppo il fascismo aveva emanato le leggi razziali, che cacciavano gli ebrei da tutti i posti di lavoro, specie gli insegnanti e gli scolari ebrei dalle scuole pubbliche. Una mattina, poco dopo il principio dell’anno scolastico, non era venuta la nostra maestra, ma una supplente in uniforme fascista mai vista prima. Dopo la preghiera e il “saluto al duce”, costei ha fatto l’appello disponendo che ogni bambina chiamata si alzasse in piedi per farsi conoscere. Arrivata a Deborah Zarfati le ordinò di non sedersi e con voce alterata disse: “Da domani tu non verrai più a scuola”. Poi spiegò chi erano gli ebrei: deicidi perché hanno fatto crocifiggere Gesù, sporchi, ladri, falsi e molte altre parole offensive. Deborah in piedi vicino a me tremava, mi accostai a lei il più possibile, le presi la mano e gliela strinsi per tutto il tempo, mentre la supplente venne verso di noi al terzo banco e con brutte maniere trascinò Deborah sotto la finestra dove legò in alto le sue lunghe trecce. Rivolgendosi alla classe disse: “Prendete il quaderno a righe e scrivete dei pensierini sui maledetti ebrei”. Dopo un momento d’angoscia, incredulità e assoluto silenzio tutte noi bambine ci siamo ribellate (…) Nonostante il baccano, nessuna delle maestre delle classi vicine è intervenuta. La supplente fascista rialzata ci ha ordinato di prendere le nostre cartelle e andarcene. (…) Siamo rimaste fuori dalla scuola fino all’uscita di tutte le classi, a cui abbiamo raccontato la cacciata di Deborah.  (…) Ho avuto l’idea di denunciare l’espulsione di Deborah con uno scritto preparato con l’aiuto di mio padre e stampato da un mio zio tipografo, che il giorno dopo insieme a mia sorella Adriana, che faceva la quinta, ed altre bambine e bambini abbiamo messo nelle cartelle di tutti gli scolari. L’iniziativa ha avuto molta risonanza e le autorità fasciste hanno disposto un’indagine. È stato facile alla Direttrice capire che eravamo state noi a promuovere la protesta. Risultato: io e mia sorella siamo state espulse da tutte le scuole del regno. Tra i compagni si scatenò una gara di solidarietà, tutti mi portavano i compiti. Pe due anni io e Deborah facevamo i compiti insieme. Purtroppo tutto questo a Debora non servì. Fu catturata il 16 ottobre 1943, durante il terribile rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma. Lei e la sua famiglia, il padre, la madre e i tre fratelli, salirono sul convoglio n. 2, arrivarono ad Auschwitz il 23 ottobre e non sopravvissero alla Shoah”.