Il 3 novembre del 1957 Giuseppe Di Vittorio è a Lecco per inaugurare la nuova sede della locale Camera del lavoro. È qui che il segretario generale della Cgil tiene il suo ultimo - bellissimo - discorso.

La nostra causa è veramente giusta - dirà in quello divenuto a tutti gli effetti un testamento - serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici. So che una campagna come quella per il tesseramento sindacale richiede dei sacrifici, so anche che dà, certe volte, delusioni amare. Ci sono ancora lavoratori che non hanno compreso, ma non bisogna scoraggiarsi. Pensate sempre che la nostra causa è la causa del progresso generale, della civiltà della giustizia fra gli uomini. Lavorate sodo, dunque, e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra CGIL, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere (…).

Terminato il discorso, preoccupatamente stanco e affaticato, Peppino torna il albergo. Qui si spegne alle ore 18 e 10 di una giornata tristemente passata alla storia.

La morte

“Se n’era andato così - scriverà la moglie Anita - senza accorgersene. (…) Il padrone dell’albergo venne a confortarmi. 'È morto nella stanza, dove tanti anni fa, aveva alloggiato Giuseppe Garibaldi!' mi disse. Poi, subito, accorse altra gente. Fra i primi, il rappresentante del governo. Poi eccomi giungere due telegrammi. Uno era del Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. L’altro proveniva da Mosca ed era di Palmiro Togliatti. Ne fui sorpresa. Come poteva già sapere? Era trascorsa appena mezz’ora! 'È bastata mezz’ora per diffondere la notizia nel mondo intero...' mi disse il Segretario della Camera del lavoro affranto e mi informò che già la radio e la televisione avevano annunciato la notizia”.

Il giorno successivo, prosegue il racconto di Anita, “partimmo per Roma. La salma di Di Vittorio era stata trasferita nella camera ardente della Camera del Lavoro di Milano dove un incessante e imponente pellegrinaggio gli portava l’ultimo affettuoso saluto. Fui informata del trasporto della salma da Milano a Roma, dopo che in quella città era stata effettuata una solenne cerimonia funebre. Il feretro era stato accompagnato alla stazione da una marea di cittadini. Al passaggio del treno in ogni città, in ogni paese, in ogni casolare, la Salma era stata salutata dall’affetto di tutta la Nazione, da tutti i lavoratori Italiani. Lo lessi in seguito pure sui giornali. Ricordo di aver letto anche che tre donne, temendo che il treno non si fermasse in un casolare di campagna, in Emilia, si erano allungate sui binari per farlo sostare (…) A Roma, alla stazione Termini, tutto era fermo. Quanta gente attendeva Peppino... Vollero portarlo a braccia fino alla Sede della Confederazione del Lavoro in Corso d'Italia. Peppino a casa non venne più! (…) Nelle ore che seguirono, molte persone illustri vennero a visitarmi. Lavoratori sconosciuti ed amici di vecchia data vennero ad esprimermi il loro dolore. Dalla Puglia fu un susseguirsi di amici (…) Venne quasi tutta Cerignola. Valanghe di telegrammi, di lettere, di messaggi vennero a lenire il mio immenso sconforto. La camera ardente allestita nella sede della Cgil fu meta di un vero e proprio pellegrinaggio di amici ed avversari politici. Vennero a salutarlo i Presidenti dei due rami del Parlamento italiano, Ministri, scrittori, scienziati, sindacalisti e uomini politici. Vennero preti e suore, donne del popolo, ragazzi, operai, impiegati, professionisti. Tutti sostarono ore intere in lunga fila, per rendere l’estremo omaggio al loro difensore”.

I funerali

Il 6 novembre si svolgono i funerali.

“Tutto pare come sospeso - osserva quel giorno Pier Paolo Pasolini -  rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie. Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città (…) Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va”.

Giorgio Amendola ha gli occhi rossi di lacrime. Longo le labbra serrate. Pajetta lo sguardo annebbiato dal dolore. Un uomo afferra le mani di Oreste Lizzadri e singhiozza come un bambino.

Vasco Pratolini - riporta l’Unità - piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a Piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso. Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso”. 

“Peppino, non te ne dovevi andare - commenta qualcuno - abbiamo ancora tanto bisogno di te”.