Stiamo vivendo un’estate rovente, nel senso letterale e metaforico del termine. E mentre molti, da questa parte del mare, saranno in acqua a fare il bagno, tantissimi dall’altra parte affronteranno le onde per sopravvivere. Cecilia Strada è attivista, operatrice umanitaria e giornalista, oggi impegnata a bordo della ResQ People Saving People. Con lei abbiamo parlato di migranti, di pandemia e anche e soprattutto di questa guerra.

Cecilia Strada, da poco è stata nominata presidente del Premio Bookciak,Azione! che trasforma i libri in corti cinematografici. Prendiamo in prestito il titolo della XI edizione, “In mare aperto”, un riferimento all’esodo di migliaia di persone, ma anche una fotografia dei nostri tempi. Anzi, forse più che in mare aperto dovremmo dire che siamo in alto mare?
Entrambe le cose in realtà. Mare aperto perché il mare è sempre aperto, il mare è la parte di terra che unisce le nostre civiltà, il Mar Mediterraneo è la strada su cui è stata costruita l’Europa è anche un bel pezzo di mondo. Però sì, siamo in alto mare nel senso che da tanti punti di vista stiamo tornando indietro: diritti che erano scontati non lo sono più, a partire dal diritto a rimanere vivi, come nel caso delle persone che noi soccorriamo in mare. Il diritto a rimanere vivi per chi attraversa il Mar Mediterraneo non solo non è più scontato ma è addirittura considerato un tema divisivo. Ma siamo in alto mare su tanti altri diritti, anche perché poi i diritti si tengono tutti insieme, nessuno esiste da solo. Oggi conquiste che davamo per assodate sono state rimesse in discussione, ancora nel 2022 ci troviamo con una guerra nel cuore dell'Europa. E ci sono poi le negazioni dei diritti sul lavoro, dei diritti civili.  Quindi sì siamo un po' in alto mare, però la buona notizia è che ci sono tante barche che possono costruire dei ponti, per tornare alla metafora di partenza.

Non dovrebbe esistere una classifica dei diritti di serie A e di serie B, cosa che invece sembra continuamente essere riproposta dal meccanismo dell’agenda setting: per esempio, in questo periodo siamo molto impegnati a parlare della guerra e quindi si parla meno di migranti, delle tragedie in mare. Lei dal 2018 si occupa principalmente di soccorso in mare con la onlus italiana ResQ People Saving People. Sulla rotta migratoria tra Africa ed Europa cosa è cambiato? La situazione resta critica.
Sì, resta critica, anche se sembra semplicemente scomparsa dai radar della politica. Sul tema del soccorso in mare si è costruito un grande pezzo di propaganda elettorale.  Ma ora che il tema sembra essere meno cavalcato da quella parte politica, parallelamente non risulta più intercettato neanche dai radar della parte politica opposta. Questo è ancora più grave, perché nel Mediterraneo invece si continua a morire. Recentemente ho letto alcune dichiarazioni del premier Mario Draghi che mi hanno un po' stupito venendo dalla bocca di un uomo serio e intelligente come lui. Di nuovo ha parlato di numeri da emergenza. Ma non c'è alcuna emergenza migranti, l'unica emergenza è quella che vivono le persone migranti, è quella che vive chi rischia la vita in mare, non certo i paesi di accoglienza. Anche in merito a ciò, la guerra in Ucraina ha mostrato molto chiaramente che il vero problema non sono i numeri: da quando la guerra è iniziata sono state accolte in Italia, giustamente e doverosamente, tante persone quante quelle arrivate nel paese in un anno intero di sbarchi. Quindi di cosa stiamo parlando? Non c'è un'emergenza, non c'è un problema di numeri. Il vero problema è costruire un sistema di accoglienza sano.

L’emergenza è appunto rispetto a un sistema di accoglienza che è stato smantellato, dal Decreto Sicurezza in poi. Un sistema che, pur con i suoi limiti, accoglieva davvero molti stranieri che arrivavano nel nostro Paese, offrendo loro un percorso in cui inserirsi, una strada da percorrere per costruirsi una nuova vita.
Assolutamente sì. Il caro vecchio Decreto Sicurezza in realtà è stato la fabbrica dell'insicurezza, della negazione dei diritti. Mai così tanta insicurezza è stata percepita dalla comunità come da quando le persone, invece di essere accolte, vengono buttate in mezzo a una strada. Paura? E certo, poi dicono “non è che possono bivaccare nel parco giochi dove vanno i nostri figli” ed è così che si arriva al “non sono razzista però”.  Ma quelli che finiscono a “bivaccare” sono coloro che sono stati mandati fuori dalle strutture che prima esistevano e ora non più, perché si è smantellato il sistema di accoglienza.

Ha citato la guerra in Ucraina, su cui lei ha più volte preso posizione lanciando una serie di allarmi. In un suo libro uscito qualche anno fa, “La guerra tra noi”, illustra le infinite connessioni economiche del nostro mondo globalizzato che sono alla base dei conflitti, sono il retroterra di chi fugge dalla miseria e dalle bombe. Quell’analisi vale anche per questa guerra tra Russia e Ucraina? Il dibattito va fatto prima, perché sotto le bombe è difficile parlare...
Quella che faccio io è un'analisi abbastanza banale e che vale per tutte le guerre, che sono sempre il risultato di una serie di elementi concatenati, non sono qualcosa che nasce da solo. Il “sistema della guerra” viene preparato e tenuto in piedi, da un punto di vista economico, militare, culturale, è così che i conflitti scoppiano. Culturalmente, ci viene fatto credere che non possano esserci alternative al fare la guerra quando c'è un problema da risolvere, che non ci siano altri mezzi per difendere la patria all'infuori di un esercito armato. Ma le armi di una guerra alimentano quella successiva.

In un suo intervento a proposito della guerra lei ha detto “negoziare è difficilissimo, ma gli accordi di pace si fanno con il nemico”. In questi mesi i pacifisti sono stati tacciati di populismo e demagogia. Cosa serve per fare davvero la pace?
Io sono un po' la reginetta delle banalità, come questa che gli accordi di pace si fanno con il nemico.  Veramente, spesso mi riascolto e quello che dico mi sembrano delle grandi banalità, se non fosse che non lo sembrano perché viviamo in un contesto di totale ribaltamento delle questioni. Questa storia del negoziato con il nemico è la storia degli ultimi vent'anni in Afghanistan, dove si era andati per portare la libertà e la democrazia, eccetera. Poi ci sono stati centinaia di migliaia di morti, di vedove, di orfani, di mutilati, di sfollati, di profughi. Trattare con il nemico? Giammai! Si rispondeva. E poi a un certo punto hanno cominciato a trattarci, perché hanno capito che era l’unica via, ma lo hanno fatto male.  Infatti alla fine il paese è stato riconsegnato al nemico, non come nel 2001 certamente, ma comunque in una brutta situazione, dopo vent’anni di guerra. Ecco perché gli accordi di pace li puoi fare soltanto con il tuo avversario. Non c'è la possibilità di una resa incondizionata.  Sulla questione delle armi in Ucraina, molti hanno accusato i pacifisti di voler salvaguardare la propria coscienza non violenta a scapito della pelle degli ucraini. Io ho avuto l'impressione che si sia voluta costruire una figurina del pacifista inesistente. Prima ancora che da un punto di vista etico, da un punto di vista strategico inviare le armi in Ucraina contro la Russia che scopo ha? Ribaltare la situazione sul piano tattico-militare? Bene, allora dobbiamo mandare i caccia da combattimento. Ma poi quelli hanno le testate nucleari, allora mandiamo anche quelle. Questo è veramente un piano inclinato di guerra. Fino a dove siamo disposti ad arrivare? Siamo disposti a fornire un arsenale atomico all'Ucraina per potersi difendere da un altro arsenale atomico in una escalation del conflitto? Poi, l'altra cosa che dico è:  smettiamola di chiedere ai pacifisti di Milano cosa pensano e domandiamolo ai pacifisti ucraini e russi. Loro risponderanno che non hanno bisogno di armi, ma di acqua, di raccontare quello che succede, di scaldarsi.

Viene da riflettere su quanto spesso tocchi agli attivisti come lei, agli artisti, agli autori fare fact checking sulle notizie false e fuorvianti. Lo fa troppo poco l’informazione mainstream? O sono troppo grandi e troppo veloci le bufale che girano sui social media? (Tanto per citare un esempio: il lancio del gatto del Comune di Bugliano, che ha fatto indignare animalisti e non).
Questo è un bel problema, perché fa perdere un sacco di tempo che invece andrebbe dedicato ad altro. La realtà del mondo umanitario, la realtà dei fatti è un universo complesso, io se devo spiegare in parole semplici la complessità, ci metto dieci ore per scrivere dodici righe. In quel frangente, una bufala di una riga e mezzo che parla dritta alla pancia viene immediatamente compresa, perché è una roba meravigliosamente semplice e viene condivisa un milione e mezzo di volte. Occupandomi di comunicazione, questo lo vivo come un grosso problema Quanto ci si mette a spiegare la verità (che è complessa) e quanto a far girare una bugia? É una battaglia è una battaglia impari

Eppure si dice che le bugie hanno le gambe corte...
Ma corrono veloce, come le motovedette della guardia costiera libica…

Accanto al rischio della disinformazione e della cattiva informazione, c’è quello dell’overload informativo, che ci rende quasi subito assuefatti alle situazioni, come forse già lo siamo a questa guerra. Il 23 luglio si tornerà nelle piazze italiane per chiedere di fermarla, ma l’attenzione sembra improvvisamente calata. Personalmente, sono giorni che non leggo più un post sull’Ucraina tra i miei contatti Facebook e Instagram. Niente più raccolte fondi, collette di beni di prima necessità, pensieri indignati e solidali.
Anche questa purtroppo è una cosa che io temevo che sarebbe successa perché l’overdose, non solo informativa ma anche emotiva, spesso comporta l’assuefazione al dolore. Noi abbiamo fatto talmente tanto scorpacciata di morti ammazzati, a pranzo, cena e colazione da diventare abituati alla sofferenza. Pensiamo all’Afghanistan: ricordo ad agosto scorso quando ci fu la caduta di Kabul questa ondata emotiva molto forte in Italia. Volevamo accogliere gli afghani, salvarli. Poi non se n’è parlato più.

C’è bisogno di lavorare sull’opinione diffusa, sugli stereotipi, sul senso comune. In questi anni ha notato un cambiamento in questo senso?
Non lo so, di nuovo: mare aperto o alto mare? Siamo sempre lì. A volte ho la sensazione che ci siano delle grandi aperture, come mi era sembrato all’inizio della guerra in Ucraina, o come nel caso della pandemia. Sembrava che il virus ci avesse fatto capire una volta per tutte che siamo fragili, mortali e tutti connessi, che non si può chiudere la porta lasciando fuori gli altri con i loro problemi. Sembrava che avessimo scoperto l'aiuto reciproco tra vicini di casa, tra sconosciuti. Per un po’ siamo stati diversi. Ma poi abbiamo perso l’occasione di fare una rivoluzione.

L’estate è tempo di vacanze. Lei come passerà questi mesi?
In acqua, a dare aiuto a chi ne ha bisogno. Non ci vedo niente di eroico, diciamo che è il minimo sindacale, se hai la possibilità di farlo. Come quando a scuola studiavi, andavi bene e i genitori ti dicevano “hai fatto metà del tuo dovere”.