Sono passati oltre vent’anni di insegnamento, e sin dalle prime supplenze ricordo in sala professori docenti che tra un cambio dell’ora e l’altro riflettevano ad alta voce sul bisogno di riconoscere il diritto di cittadinanza per studenti e studentesse di origine straniera.

Seguirono gli anni della battaglia per lo ius soli, portata avanti insieme a personalità della politica e della cultura, molte volte nelle strade e nelle piazze, molte meno nelle aule parlamentari. Anni durante i quali in alcuni momenti sembrò stesse arrivando la svolta decisiva, salvo essere sbattuti di nuovo alla casella di partenza, eclissati in un batter di ciglia, spesso umiliati, altrettanto spesso offesi.

Giocando al ribasso, si è quindi tentata la carta dello ius culturae, costruita sulla proposta di sostenere un percorso scolastico ben definito per poter essere riconosciuti come cittadini italiani, con la speranza di accontentare in questo modo anche chi si sente al sicuro soltanto quando sventola la bandiera dell’identità nazionale; ora siamo allo ius scholae, in pratica lo stesso tipo di impostazione, prevedendo un ciclo scolastico di almeno cinque anni (si discute se oltre la primaria debba essere inclusa anche la secondaria di primo grado) prima che una moltitudine di studenti e studentesse minorenni possano finalmente dirsi del tutto italiani, nei loro diritti e nei loro doveri.

Da un po’ di tempo è tornata di moda l’educazione civica, anche stavolta dopo un accidentato esercizio nominale, tra “cittadinanza e Costituzione”, “educazione alla cittadinanza” e consimili, seppur riconosciuta come disciplina solamente l’anno scorso, con tanto di voti e valutazioni a fine anno, attraverso ore di lezione distribuite in ogni materia, dall’italiano alle scienze motorie, non senza confusioni e perplessità di vario genere. Di certo, in caso di approvazione di un testo di legge riguardante lo ius scholae, la materia di educazione civica, ci si augura meglio riformulata, non potrebbe non avere al centro il tema dell'universalità dei diritti che, come si dice, o sono per tutti o non sono.  

Nel frattempo, durante questi oltre venti anni per una volta, o ancora una volta, la scuola pubblica italiana, mozzata del suo aggettivo, ha dimostrato di essere più avanti di chi dovrebbe gestirla. Sì, perché gli esempi che ogni docente, in ogni istituto di ordine e grado, in ogni regione, città o provincia della Penisola, può raccontare in termini di inclusione tra alunni e alunne di ogni origine e provenienza, avendoli visti con i propri occhi e vissuti sulla propria pelle, sono oramai infiniti. In particolare nell’ultimo decennio (nel corso del quale i bambini e le bambine nati in Italia da genitori stranieri sono divenuti la netta maggioranza), la diversità e il multiculturalismo presenti all’interno delle nostre classi sono tali da esser divenuti la normalità, in attesa che diventi normativa.

Chiaramente non sono tutte rose e fiori, attriti e dissidi esistono, di solito causati da atteggiamenti e slogan mutuati direttamente dai “grandi”. Per questo il lavoro di un insegnante è diventato anche risolvere in classe le apparenti incomprensioni causate da un colore di pelle, un tipo di abbigliamento, una fede religiosa, una parola sconosciuta: con l’aiuto di una cartina geografica e di qualche nozione storica le tensioni tendono a sciogliersi, arrivando a un giusto equilibrio, in fondo ascrivibile a niente d’altro che non sia il rispetto degli uni per gli altri.

Con tutti i suoi ritardi e i suoi difetti, la scuola dimostra così (e non è la prima volta) di rappresentare un laboratorio sociale concreto e tra i pochi rimasti attivi, proiettata verso un futuro che è già presente da un pezzo, aspettando che il resto del mondo, soprattutto quello degli adulti, trovi il modo per connettersi con la realtà dei fatti.