Quelle di Aldo Moro e di Peppino Impastato sono due vite, due morti che si sono intrecciate nello stesso giorno unendo il Nord e il Sud della nostra penisola, il centro e la periferia, la società politica e la società civile, il paese formale e quello reale. 

Quella drammatica mattina le Brigate Rosse fanno ritrovare il cadavere di Aldo Moro in via Caetani, all’interno di una Renault rossa parcheggiata tra il civico 32 e il 33. I 55 giorni iniziati in via Fani il 16 marzo precedente terminano nel peggiore dei modi possibili.

La reazione popolare è immediata: scioperi e manifestazioni si susseguono nelle principali città italiane. Nelle grandi fabbriche gli operai decidono di sospendere autonomamente il lavoro per due ore, mentre per il giorno dopo la Federazione unitaria e la Flm proclamano lo sciopero generale, il blocco immediato delle aziende e il presidio per tutta la notte delle fabbriche fino alla ripresa del lavoro l’indomani mattina.

Solo qualche ora prima, a centinaia di chilometri di distanza, perdeva la vita il giornalista siciliano Giuseppe Impastato.

Il cadavere di - per tutti - Peppino viene ritrovato la mattina del 9 maggio nei pressi di binari ferroviari della tratta Palermo-Trapani, dilaniato da un’esplosione. 

È la messa in scena di un tentativo di depistaggio da parte degli esecutori dell’uccisione, uomini agli ordini del capomafia Gaetano Badalamenti, che tentano di far passare il giornalista di Radio Aut (nel programma Onda Pazza Peppino prendeva in giro i capimafia e i politici locali: il suo bersaglio preferito è Tano Seduto, erede del boss Cesare Manzella e amico di suo padre Luigi) e militante di Democrazia proletaria (nel 1978 Peppino decide di candidarsi alle elezioni comunali del suo paese. Assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio a soli 30 anni, risulterà comunque eletto il 14 maggio con 260 voti. Anche la madre si reca a votare, violando il lutto che la vuole reclusa in casa) come un terrorista morto nel tentativo di un attentato.

“I ricordi di quel periodo sono terribili - racconterà anni dopo Giovanni Impastato, fratello di Peppino - È stato anche il giorno della morte di Aldo Moro. Per noi è stato un fulmine a ciel sereno, non ce l’aspettavamo. Ricordo che siamo anche stati trattati male dagli investigatori, che hanno perquisito le nostre abitazioni. Ci hanno preso per dei terroristi. Verso di noi sono stati brutali”.

Contemporaneamente, però, comincia a delinearsi un’altra storia e la matrice mafiosa del delitto viene individuata anche grazie all’attività di Giovanni e di Felicia Bartolotta che rompono pubblicamente con la parentela mafiosa e rendono possibile la riapertura dell’inchiesta giudiziaria.

Le indagini si concluderanno solo nel 2002, con la condanna all’ergastolo di Tano Badalamenti, poi deceduto nel 2004. “È il primo compleanno che vivo con la pace nel cuore”, dirà il 24 maggio 2002 mamma Felicia, prima donna in Italia a costituirsi parte civile in un processo di mafia, festeggiando il suo 86° compleanno.

I funerali di Aldo Moro si svolgeranno il 13 maggio, quelli di Peppino Impastato il 10.

“Eravamo più di mille persone - racconterà Umberto Santino - ma (…) di Cinisi e Terrasini c’erano pochissime persone. Non c’era una comunità che si appropriava del proprio eroe, non c’erano nemmeno le scuole. Non c’era niente di istituzionalizzato, come del resto non c’è alle iniziative che facciamo adesso”. 

Le istituzioni invece non mancano al funerale pubblico di Aldo Moro, officiato dal cardinale vicario di Roma Ugo Poletti nella basilica di San Giovanni in Laterano alla presenza del pontefice Paolo VI che, rompendo un protocollo plurisecolare, eccezionalmente accetta di presenziare a una messa in suffragio fuori dalle mura vaticane.

Alle esequie partecipano autorità istituzionali e uomini politici, ma manca la famiglia e, soprattutto, manca Aldo Moro, quello stesso Moro che in una lettera a Benigno Zaccagnini scriveva il 24 aprile 1978: “per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.

“La famiglia - sarà il perentorio comunicato ufficiale dei familiari - si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. Una storia ancora probabilmente non del tutto scritta.

Questo non è mio figlio. 
Queste non sono le sue mani, questo non è il suo volto, questi brandelli di carne non li ho fatti io. 
Mio figlio era la voce che gridava nella piazza, era il rasoio affilato dalle sue parole, era la rabbia, era l’amore che voleva nascere, che voleva crescere. 
Questo era mio figlio quando era vivo, quando lottava contro tutti, mafiosi, fascisti, uomini d’onore, che non valgono neppure un soldo, padri senza figli, lupi senza pietà. Parlo con lui da vivo, non so parlare con i morti. 
L’aspetto giorno e notte, ora si apre la porta, entra, mi abbraccia, lo chiamo, è nella sua stanza a studiare, ora esce, ora torna, il viso nero come la notte, ma se ride è il sole che spunta per la prima volta, il sole bambino. 
Questo non è mio figlio, questa bara piena di brandelli di carne non è Peppino: qui dentro ci sono tutti i figli non nati di un’altra Sicilia (La madre di Peppino - Umberto Santino).

Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino (A. Moro).