Il R.D.L. 19 aprile 1923, n. 833 (in G.U. 20 aprile 1923, n. 93, p. 3190) abolisce in Italia il Primo maggio, Festa del lavoro, delle lavoratrici e dei lavoratori.

Recita la legge: “(…) Abbiamo decretato e decretiamo: il 21 aprile, giorno commemorativo della fondazione di Roma, è destinato alla  celebrazione del lavoro ed è considerato festivo, eccetto che per gli uffici giudiziari. È soppressa la festa di fatto del 1° maggio e tutte le pattuizioni intervenute tra industriali ed operai per la giornata di vacanza in tal giorno dovranno essere applicate pel 21 aprile e non pel 1° maggio. Il presente decreto entra in vigore oggi e sarà presentato al Parlamento per essere convertito in legge. Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. Dato a Roma, addì 19 aprile 1923”.

Con queste parole, Mussolini giustificava la sua decisione: “La grande guerra, che ha valorizzato ogni manifestazione di attività, ha sviluppato anche in tutte le classi una più profonda coscienza delle energie e del lavoro individuale. Celebrare, in un giorno all’anno, queste energie e questo lavoro è sprone ad una più fervida, proficua attività collettiva e nazionale; ed è bene che ciò sia formalmente riconosciuto in una legge dello Stato. E perché la celebrazione si ricongiunga ai ricordi della nostra storia e del genio della stirpe, il Governo ha voluto farla coincidere con la data del 21 aprile: la fondazione di Roma, data immortale da cui ha inizio il lungo, faticoso, glorioso cammino dell’Italia”.

Ma il Primo maggio, soppresso, mantiene e anzi rafforza la sua carica sovversiva, divenendo occasione per esprimere in forme diverse la fedeltà a un’idea.

Così sul numero speciale dedicato al Primo Maggio 1952 di Lavoro, giornale rotocalco della Cgil dal 1948 al 1962, Luciano Lama, futuro segretario generale della Cgil, ricorda un episodio legato alla Festa del Lavoro durante il ventennio fascista.

Non riuscirò a dimenticare gli ultimi giorni di aprile del 1944. La nostra brigata, la Ottava Garibaldi, era sottoposta da tre settimane ad attacchi in forze delle S.S., della Wehrmacht, delle “brigate nere”. In quelle vallate dell’alto Appennino Tosco-Emiliano, poche centinaia di partigiani si battevano contro decine di migliaia di uomini forniti di mortai, di mitragliere pesanti, di aerei persino. La nostra formazione, per meglio sottrarsi al nemico, si era divisa. Io rimasi con una compagnia: una ventina di uomini ormai affranti per la fatica e affamati, con poche cartucce per i lunghi «91», due cavalli ed un mulo. Eravamo rifugiati in casa di un povero contadino, a oltre mille metri di altezza. Dick, il comandante di una squadra distrutta dai tedeschi al secondo assalto, ci aveva seguito, ferito a una gamba, su un cavallo, legato vicino alla mitragliatrice il cui treppiede era rimasto incastrato nel fango nell’ultimo attacco nemico. In casa, un unico letto a due piazze. Antonio, il contadino, ci aiutò ad adagiarvi il ferito. Dick si lamentava: nel polpaccio gli era rimasta infitta la pallottola di una machine-pistole e la gamba era gonfia, rossa. Occorreva riprendere il cammino al più presto perché i tedeschi, ancora nelle vicinanze, avrebbero potuto attaccarci da un momento all’altro. Decidemmo di tentare l’estrazione della pallottola e a me fu assegnato il compito dell’“operazione”. Tutte le mie cognizioni chirurgiche si riassumevano nell’aver visto una volta un mio cugino, studente di medicina, sezionare una gamba in sala di anatomia. Ma non c’era tempo da perdere e mi misi al lavoro. Bagnai nell’aceto una lametta da barba cominciai a tagliare il polpaccio. Non un muscolo del viso di Dick si muoveva. I compagni, uno dopo l’altro, si avvicinarono muti e silenziosi. Ad un certo punto, mentre affondavo sempre più la lama, Dick, imperlato di sudore, disse fra i denti: “Sapete, ragazzi, che giorno è domani? È il Primo Maggio! Dì tu, Aldo, che sei stato all’estero e sai la storia, qualche cosa su questa data”. Aldo, il commissario politico di compagnia, che in quel momento mi stava passando le forbici mi guardò in modo strano, fra la meraviglia e la commozione. E cominciò a raccontare, con voce piana e gioviale, dell’eroismo dei martiri di Chicago, delle lotte dei lavoratori, del significato che il Primo Maggio ha assunto, nel mondo, per l’intera umanità, da quando i lavoratori, resi consapevoli, hanno acquisito la forza ed il coraggio di spezzare le catene della schiavitù capitalistica. Io intanto affondavo le forbici nella carne di Dick e a un tratto incontrai con la punta un corpo duro: la pallottola. Occorse ancora qualche minuto per estrarla, ma alla fine ci riuscii. D’un tratto saltò fuori, spinta dalle forbici, con un fiotto di sangue nero rappreso. L’«operazione» era finita. Aldo intanto continuava il suo racconto. La sua voce però prese colore, si fece appassionata e calda, quando vide che il tentativo era riuscito. Ricordò la sua lotta nell’emigrazione e nella clandestinità, í duri giorni del carcere, il Primo Maggio festeggiato in segreto tra le mura della cella, celebrato dal compagno più qualificato in ogni angolo delle prigioni dov’erano tenuti i “politici”. Avevo dimenticato i rischi ed i disagi della caccia all’uomo, di cui eravamo ancora protagonisti, l’operazione che m’aveva scosso i nervi e lo stomaco, l’impassibilità eroica di Dick, la fame che si faceva sempre più acuta. D’un tratto, proprio Dick ruppe il silenzio che avevano lasciato le parole di Aldo. “Senti, io non ho nulla da darti per dimostrarti il mio affetto. Ti regalo la pallottola che hai levato dalla mia gamba perché tu ti ricordi di me, di noi, di questo giorno, se riusciremo a salvarci”. Povero Dick! Morì in una azione successiva mentre sparava con la mitragliatrice fissata alla roccia, senza treppiede. Ma conservo ancora quel pezzetto di piombo come il pegno più caro di una lotta che ha fatto di me ragazzo un uomo, uno dei tanti che proseguono il cammino verso la liberazione”.