Lidia Brisca nasce a Novara il 3 aprile 1924. Giovanissima prende parte alla Resistenza e nel dopoguerra si impegna nei movimenti cattolici, in particolare con la Fuci - Federazione Universitaria Cattolica Italiana.

Nel 1952 si trasferisce in Alto Adige e nel 1964 è la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, insieme a Waltraud Gebert Deeg. In quella stessa legislatura è anche la prima donna a entrare nella giunta provinciale, come assessora effettiva per gli Affari Sociali e la Sanità. All’inizio degli anni Sessanta inizia ad insegnare all’Università cattolica del Sacro Cuore con l’incarico di lettrice di lingua italiana e metodologia degli studi letterari, incarico che durante il Sessantotto non le viene rinnovato a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista.

Dopo essere uscita dalla Democrazia cristiana, simpatizza per il Partito comunista e nel 1969 viene chiamata dai fondatori nel primo nucleo de Il Manifesto. Membro di Rifondazione comunista fin dalla fondazione, nelle elezioni politiche del 2006 verrà eletta al Senato. Nel 2009 si candiderà alle elezioni europee nella lista PRC-PdCI nella circoscrizione Nord-Est senza essere eletta a causa del mancato raggiungimento della soglia di sbarramento prevista dalla legge elettorale.

Nel 2018 accetterà di candidarsi per il Senato con Potere al Popolo. La lista non raggiunge però la soglia di sbarramento del 3% e dunque non è eletta. Da vera insegnante, Lidia Menapace ci ha educato con l’esempio della sua vita: la Resistenza partigiana, la voglia di ricostruire dopo le macerie civili e umane della guerra, l’impegno culturale e sociale. Le sue parole sagge, ironiche, leggere ma pesanti allo stesso tempo, la sua stessa fisicità, il suo profilo inconfondibile ci hanno fatto negli anni innamorare di lei.

“Buonasera a tutte e a tutti - diceva nel marzo del 2017 a Milano - sempre tutte e tutti, cioè sempre il linguaggio inclusivo. E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché noi donne siamo di più. Quindi: contano i numeri, contano i voti. Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento, quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più che di uomini al referendum “Monarchia-Repubblica”; quindi non metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo quanti dovremmo essere”.

C’è in queste parole tutta Lidia, con la sua ironia, la sua schiettezza, il suo femminismo. Una anticipatrice: questa forse è stata la caratteristica più nitida ed esclusiva del suo lavoro.

Scriveva già nel 1993 nella prefazione al volume Parole per giovani donne: “Poiché ho ribattuto che possiamo cominciare a sessuare il linguaggio nei miliardi di volte in cui si può fare senza nemmeno modificare la lingua, e poi ci occuperemo dei casi difficili, ecco subito di nuovo a chiedermi perché mai mi sarei accontentata di così poco. Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria. Questo è infatti il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola. Trasmettere oggi nella nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere”.

Ci ha regalato la definizione più suggestiva del movimento delle donne definendolo "carsico", come un fiume che talvolta sprofonda nelle viscere della terra per riapparire in luoghi e tempi imprevisti con rinnovata potenza. Suo è lo slogan “Fuori la guerra dalla storia”, sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre.

“Cosa rimane oggi della Resistenza? - diceva nell’aprile 2009 - È rimasto un gran buco da colmare. Siamo davanti a un fenomeno che ho iniziato a chiamare di “Alzheimer organizzato” (…) Tutti noi temiamo l’alzheimer, perché è la perdita della memoria di te stesso (…) ma un intero popolo che viene indotto all’alzheimer è un popolo che tu puoi portare dove vuoi. Senza un passato con cui confrontarsi non ha un futuro”.

“Lidia Menapace - scriveva poco dopo la sua scomparsa Livia Turco - fa parte di quella catena di madri che hanno costruito la democrazia e la giustizia sociale, che hanno scritto una nuova tavola di diritti, che hanno vissuto la politica come passione, sfida, impegno ed anche allegria. Questa catena delle nostre Madri sono un grande patrimonio della nostra Repubblica che noi dobbiamo far conoscere ai nostri giovani, farle diventare parte della narrazione pubblica, trarre dal loro esempio la forza per costruire un mondo nuovo”.

“Così era Lidia Menapace - proseguiva Livia Turco - Aveva 96 anni ma era forte come una quercia pur dietro il suo viso dolce. Una presenza dolce e fortissima. Sempre presente. (…) Buon Viaggio cara Lidia continua a starci accanto. Noi staremo accanto a te”. “Lidia resisté”, le scriveva in un bigliettino il generale Alexander, comandante delle forze alleate. Adesso tocca a noi, perché la Resistenza continua, anche oggi, soprattutto oggi.