“Le trasformazioni determinate dalla tecnologia possono essere comprese, e governate, solo se si è capaci di mettere a punto strumenti prospettici, e se questo avviene ridefinendo i principi fondativi delle libertà individuali e collettive”. Il compianto Stefano Rodotà già nel 2014 provava a tracciare un argine (nel suo illuminante libro Il mondo nella rete. Quali i diritti quali i vincoli edito da Laterza) contro i rischi che la rivoluzione digitale in atto stava provocando nella nostra società. Sette anni dopo, il rischio è diventato realtà. Colpa di una pandemia globale, ma non solo.

Secondo il report della società di analisi App Annie, nel 2020 sono state scaricate da App Store e Google Play Store oltre 130 miliardi di applicazioni. L’incremento registrato rispetto ai dodici mesi precedenti è del 12%, mentre la spesa dei consumatori è cresciuta di un quarto, raggiungendo quota 112 miliardi di dollari. In generale, l’incremento dei numeri è influenzato dai mercati emergenti, ma quest’anno, a causa della pandemia Covid-19, l’adozione dei dispositivi mobili ha subito, dicono gli esperti, un’accelerazione paragonabile a quanto sarebbe potuto accadere in tre anni.

Numeri pazzeschi che, durante questa pandemia, hanno fatto bruciare alle multinazionali dei Big Data record su record. Sia in termini economici, con bilanci da capogiro, sia in relazione all’acquisizioni dei dati, linfa vitale per tenere sotto scacco l’utente-consumatore e condurlo, più o meno a sua insaputa, nel mercato di riferimento.

Un tema molto caro anche al sindacato e al segretario generale della Cgil Maurizio Landini in particolare. Sul ruolo pubblico nella gestione delle reti digitali il numero uno di Corso Italia lancia da tempo l’allarme: “Le grandi multinazionali, che in questo momento stanno facendo ricavi incredibili nel mondo, entrano in possesso dei dati e li vendono per aumentare i loro profitti e questo è un problema non adeguatamente affrontato”.

Ma se l’esecutivo latita, la Cgil si porta avanti e, unico sindacato in Europa, brucia le tappe dotandosi di un sistema collaborativo digitale per tutelare la privacy dei propri iscritti. È da questi presupposti che nasce Futura Lab, una piattaforma nuova di zecca dove svolgere le proprie assemblee, direttivi, riunioni da remoto. La particolarità è che l’infrastruttura tecnologica è dedicata e a completa gestione interna, non più cloud di cui non si conosce la fisicità o peggio la localizzazione geografica. In questo modo la privacy è blindata: nulla è accettato dall’utente che comporti la migrazione di dati all’estero o in Paesi la cui legislazione privacy è completamente diversa dall’europea o, peggio, con l’obbligo di accettare profilazioni per scopi commerciali. Una battaglia di civiltà contro chi si arricchisce alle spalle dei più deboli, inconsapevoli di essere carne da macello per multinazionali senza troppi scrupoli.

Su questo terreno la Cgil ha più volte avanzato la proposta di rendere pubblici i dati in possesso delle grandi major. Entrando di fatto nei campi di scuola e sanità, rispettivamente interessati dalla didattica a distanza e dalla necessità di ampliare gli investimenti per la telemedicina, le piattaforme digitali non possono che essere di proprietà pubblica, non privata e quindi legata a mercato e profitto. Il motivo è chiaro per il segretario Landini, il quale individua “l’uso dei dati delle persone e la tecnologia digitale” come potenziale “strumento per migliorare i nostri diritti e la nostra vita”.