Da qualche giorno, davanti al liceo Bottoni di Milano, a dar man forte alla protesta degli studenti per un rientro in presenza nelle classi sono arrivati anche i professori, con il supporto della dirigente scolastica. Una scena che si ripete sui marciapiedi di altre scuole italiane, dove si organizzano lezioni all’aperto auspicando al più presto un segnale del governo e del ministero preposto. Sono iniziative moltiplicatesi nelle ultime settimane, inaugurate di fronte Montecitorio dalla trovata di indossare maschere cartonate con i volti di vari politici del presente e del passato, mentre venivano illustrate su una piccola lavagna al centro dell’aula improvvisata le cose che non vanno, quelle che non sono andate, quelle che andrebbero fatte.

Non solo la ministra Azzolina, dunque, ma anche Luigi Di Maio, la coppia che scoppia Salvini-Meloni, il ministro dell’economia Gualtieri, quello della cultura Franceschini, la buona scuola di Matteo Renzi e Valeria Fedeli, fino ad arrivare alla caricatura di Mariastella Gelmini: in quell'occasione i manifestanti non hanno risparmiato nessuno, dimostrando di saper tornare indietro nel tempo almeno di un paio di decenni, quelli che hanno portato alla progressiva dissolvenza della pubblica istruzione, al punto che la definizione stessa del dicastero ha perduto per strada il suo aggettivo qualificativo, rimanendo istruzione non si sa bene per chi, e di cosa.     

Nel suo complesso, il messaggio inviato racconta una scuola rimasta esclusa dai capitoli principali dell’agenda politica nazionale di ogni schieramento politico, colpita per vent’anni da tagli sistematici (la Gelmini tolse otto miliardi in un sol colpo), o trasformata in “bancomat di stato”, mentre la retorica da bar secondo la quale con la cultura non si mangia prendeva il sopravvento, cedendo alle sirene (e ai finanziamenti) dei privati, supportati dalla strampalata messa in atto dell’alternanza scuola-lavoro, forse utile per alcuni istituti specializzati, non certo valida per tutti. Tornare a investire, dunque, e farlo attraverso un progetto, un programma ben definito e di ampio respiro, che riesca a coniugare educazione e formazione, conoscenza e innovazione, oltre la situazione determinata dalla pandemia, per immaginare un altro futuro.

La legittima richiesta di un ritorno a una scuola “normale”, in presenza, potrebbe però rivelarsi un’arma a doppio taglio, perché forse il nodo da sciogliere in questo tortuoso e faticoso anno scolastico è proprio questo: più che tornare al "prima", tentare di trasformare le conseguenze dettate dall’emergenza nell’opportunità di compiere quel salto in avanti tanto atteso, rappresentato non dalla sfrenata tecnologizzazione del sistema scolastico, come molti sembrano invece intendere e auspicare, quanto nella possibilità di impostare una didattica diversa, un insegnamento diverso, che non contempli quasi esclusivamente l’ora di lezione frontale da parte di un docente autorevole e/o autoritario, ma qualcosa che possa concretizzarsi attraverso una sorta di contaminazione tra generi, con docenti disposti ad aprirsi verso altre esperienze, per sé e per la classe, compresa quella maturata in questi mesi di didattica a distanza, non interamente da buttare, ma da limare per bene rendendola un efficace strumento di lavoro in opportune circostanze, dando senso al concetto di didattica integrata.

Per ottenere tutto ciò, o almeno per provarci sul serio, più degli studenti sono gli adulti a essere chiamati in causa, perché sono gli adulti, nei rispettivi ruoli, ad avere il potere di prendere decisioni che possono davvero modificare l’ordine e il disordine delle cose, pur restando l’interazione generazionale un elemento imprescindibile allo scopo.

Ecco perché, ad esempio, lascia perplessi il provvedimento preso in fretta e furia dalla dirigente scolastica del Liceo classico Gioberti di Torino, probabilmente agitata dal “cattivo esempio” fornito da Anita e Lisa, le due adolescenti in seduta permanente davanti la scuola media Calvino, a pochi passi dallo stesso Gioberti, divenute testimonial di queste forme di protesta. La preside ha vietato agli studenti di seguire la didattica a distanza al di fuori delle mura casalinghe, con una circolare che avverte come non sia consentito “il collegamento da luoghi diversi dalla propria abitazione, quali possono essere parchi, vie cittadine, bar o ambienti di ritrovo, per ragioni di sicurezza e responsabilità, dal momento che luoghi di questo tipo non favoriscono le condizioni necessarie per la concentrazione e l’attenzione richiesta”.

Eppure le circostanze della vita, di questa vita che siamo e saremo costretti a vivere, di cui non sono certo responsabili alunni e alunne di qualsiasi istituto, sembrano andare proprio verso una concezione, se non liquida, di certo fluida delle postazioni di studio e di impiego: lo stesso mondo del lavoro, tanto (troppo) evocato anche durante il percorso scolastico dell’obbligo, si sta attrezzando per un immediato cambiamento di abitudini ormai già divenute desuete, in luogo di scelte che appaiono sempre più irreversibili.

Ma se non ci connettiamo, anche umanamente, tra di noi, il rischio è di essere travolti dagli eventi.