L’Europa sociale è più che mai necessaria
di Augusto Santos Silva, ministero degli Esteri del Portogallo
El Pais, 8 aprile 2021

Le decisioni devono trasformarsi in fatti, assicurare le vaccinazioni e garantire la ripresa

Marco Merlini

Il motto della presidenza portoghese del Consiglio dell’Unione europea è: “Tempo di agire: per una ripresa giusta, verde e digitale”. Senza dubbio, la priorità è la ripresa economica e sociale. È giunto il momento di agire, trasformando le decisioni in fatti: assicurare la vaccinazione diffusa, attuare i programmi del bilancio pluriennale dell’Unione europea, garantire le risorse finanziarie adeguate ai piani nazionali per la ripresa e aumentare l’influenza dell’Europa. La ripresa deve essere verde e digitale, come definito nell’agenda strategica 2019-2024 del Consiglio europeo. Il valore aggiunto della Presidenza portoghese risiede, dunque, nell’aggettivo “giusta”, cioè nella dimensione sociale della costruzione europea.

Vogliamo mettere le persone al centro della ripresa economica e del cambiamento strutturale. È importante che si approvi la prima legge europea sul clima quanto prima, e per questo motivo collaboriamo con il Parlamento europeo e la Commissione: l’Unione europea non deve rinunciare alla sua attività guida in materia di azione per il clima e transizione energetica. Se chiediamo agli Stati membri di ratificare con urgenza la decisione sulle risorse proprie (come hanno fatto il Portogallo e la Spagna), lo facciamo perché non possiamo rimandare la distribuzione di 750 miliardi di euro che finanzieranno i piani nazionali per la ripresa. Non possiamo neanche burocratizzare la sua analisi tecnica, basta guardare con quanta rapidità gli Stati Uniti hanno deciso il piano per la ripresa, per renderci conto che il ritmo con cui operiamo è inaccettabile. Ma i progetti per la resilienza economica, la trasformazione digitale e i progetti per l’azione climatica esistono per migliorare le condizioni di vita delle persone, per questo la dimensione sociale deve essere un elemento centrale della loro progettazione.

Il Piano di Azione del Pilastro europeo dei Diritti Sociali, presentato dalla Commissione europea nel mese di marzo, è un buon documento orientativo. Gli obiettivi da conseguire nel 2030 sono realistici: ridurre di 15 milioni di persone a rischio povertà; portare l’80% degli adulti ad avere competenze digitali di base e il 60% della popolazione attiva ad una formazione annuale; aumentare il tasso di occupazione al 78%; ridurre il divario retributivo di genere; raggiungere l’obiettivo che meno di un giovane su dieci sia disoccupato o non studia. Gli obietti chiari consentono di mobilitare tutte le parti in causa. Il Vertice sociale di Porto, che si terrà a maggio, sarà un momento di mobilitazione che vedrà riunite le istituzioni europee e le parti sociali e darà slancio politico a livello di capi di Stato e di Governo.

Un’agenda progressista deve realizzare progressi nell’ambito del futuro del lavoro, delle competenze e qualifiche necessarie e di una protezione sociale adeguata. In questo modo, le persone percepiranno la transizione ecologica e digitale e la trasformazione economica non una minaccia di regressione o di esclusione, ma come sfide che saranno in grado da affrontare e superare. Vedranno, quindi, il futuro dal punto di vista della realizzazione e non della diminuzione dei loro diritti sociali.

Per questa ragione, la presidenza portoghese sta cercando di realizzare progressi anche su altri punti centrali dell’iniziativa legislativa europea: sulla negoziazione delle direttive sui salari minimi, sulla trasparenza salariale, sulla presenza delle “donne nelle amministrazioni” e sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale; e sul progetto per la direttiva sul reddito minimo garantito.

Oggi, tuttavia, il modello sociale europeo pone un accento particolare sulla salute pubblica. Non si tratta soltanto di dare una risposta alla pandemia (l’articolazione delle misure sanitarie e il ritorno alla libera circolazione e, soprattutto, la strategia vaccinale comune), ma di non tralasciare le lezioni apprese, di migliorare considerevolmente la capacità di risposta collettiva. A tale riguardo, l’entrata in vigore del primo programma europeo rivolto specificatamente alla salute (UE per la salute) è un grande traguardo.

A questo vanno aggiunte altre dimensioni dell’Europa sociale, quali l’uguaglianza di genere, la non discriminazione basata sull’orientamento sessuale, la lotta contro il razzismo e la xenofobia, la giustizia fiscale, l’inclusione o la protezione degli adulti vulnerabili sono le dimensioni su cui la presidenza portoghese sta lavorando attivamente. Ma un’agenda politica per il progresso sociale è molto ampia ed è questa a dare significato pieno agli altri risultati importanti di questo semestre, come la decisione di continuare la politica di bilancio espansiva nel 2022 o il lancio della Conferenza sul futuro dell’Europa che è stata sbloccata dalla presidenza portoghese.

L’Europa sociale è un’Europa in cui c’è posto per tutta la società, per i cittadini liberi e uguali, difesi dalla legge e protetti da una rete comune di integrazione e sostegno sociale. Non dobbiamo dimenticarlo in questa crisi e né nella prossima ripresa.

Per leggere l'articolo originale: Una Europa social, más necesaria que nunca


I lavoratori del settore dell'abbigliamento nel mondo stanno ancora aspettando il trattamento di fine rapporto
The New York Times, 7 aprile 2021

Gli autori dello studio sulle fabbriche dell'abbigliamento destinate all'esportazione, condotto dal Worker Rights Consortium, stimano che 213 fabbriche, in almeno 18 paesi, debbano ancora pagare 171.5 milioni di dollari di trattamento di fine rapporto a 160.000 lavoratori.

Antonello Nusca (Agenzia Sintesi)

In una telefonata disturbata, Ashraf Ali, padre di 35 anni, ha riferito di volersi suicidare per la disperazione di dover sfamare la sua famiglia. Sokunthea Yi, dalla Cambogia, ha detto di aver passato notti insonni preoccupato di come restituire i prestiti contratti per costruire casa sua. In Indonesia, Dina Arviah, a soli 23 anni, ha detto di non nutrire speranze per il suo futuro perché non c'è più lavoro nel suo territorio.

Tutti loro un tempo lavoravano nelle fabbriche di abbigliamento per la produzione di vestiti e scarpe per aziende come Nike, Walmart e Benetton. Ma questi posti di lavoro sono scomparsi negli ultimi mesi, dato che i grandi marchi negli Stati Uniti e in Europa hanno annullato o rifiutato di pagare gli ordini in seguito alla pandemia e i fornitori hanno fatto ricorso ai licenziamenti di massa o a chiusure.

La maggior parte dei lavoratori del settore guadagnano salari da sempre bassi. Questo significa che l'unica differenza che si frappone tra loro e la povertà estrema sono le indennità di licenziamento che la maggior parte dei lavoratori dell'abbigliamento devono ricevere al momento del licenziamento, in qualsiasi parte del mondo si trovino.

Secondo il nuovo rapporto realizzato dal Worker Rights Consortium, ai lavoratori del settore dell'abbigliamento come Ali, Yi e Dina Arviah non è stato dato loro parte o quanto gli era dovuto.

Gli autori dello studio hanno individuato 31 fabbriche di abbigliamento per l'esportazione in nove paesi, dove 37.637 lavoratori licenziati non hanno ricevuto il trattamento di fine rapporto legalmente guadagnato, per un totale di 39.8 milioni di dollari.

Secondo Scott Nova, direttore generale del gruppo di ricerca, il rapporto copre soltanto il 10% delle fabbriche di abbigliamento chiuse nel mondo dove ci sono stati licenziamenti di massa lo scorso anno.

Il gruppo di ricerca, che sta indagando su altre 210 fabbriche in 18 paesi, sta portando gli autori dello studio a stimare che i dati finali specificheranno che le violazioni del diritto a ricevere il Tfr riguarderanno più di 160.000 lavoratori che devono ricevere 171.5 milioni di dollari.

“Il trattamento di fine rapporto sottratto è stato un problema di vecchia data dell'industria dell'abbigliamento, ma le dimensioni del fenomeno sono aumentate in modo drammatico lo scorso anno”, ha affermato Nova. Ha aggiunto che i dati probabilmente aumenteranno con le conseguenze economiche dovute alla pandemia che continuano a manifestarsi nel settore del commercio al dettaglio. Lui crede che la perdita dei salari potrebbe ammontare tra i 500 milioni di dollari e gli 850 milioni di dollari.

Gli autori del rapporto dicono che l'unica soluzione realistica sarebbe creare un fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto.

L'iniziativa, realizzata in collaborazione con 220 sindacati e altre organizzazioni attive sul diritto del lavoro, sarebbe stata finanziata da contributi obbligatori dei marchi firmatari, che potrebbero essere utilizzati in caso di mancato pagamento del trattamento di fine rapporto su vasta scala da parte di una fabbrica o di un fornitore. 

Ci sono diversi marchi famosi coinvolti nel rapporto che hanno guadagnato danaro durante a pandemia. Ad esempio, Amazon ha riferito un aumento del profitto netto del 94% nel 2020, e Inditex ha guadagnato 11.4 miliardi di euro, circa 13.4 miliardi di dollari, in profitti lordi. Anche Nike, Next e Walmart hanno realizzato guadagni consistenti.

Alcuni esperti del settore ritengono che le pratiche di acquisto delle aziende influenti del settore siano uno dei maggiori responsabili della crisi del fine trattamento di fine rapporto. La stragrande maggioranza dei rivenditori di vestiario non possiede impianti propri di produzione, ma stipula contratti con fabbriche situate in paesi dove il costo del lavoro è basso. I marchi dettano i prezzi, spesso obbligando i fornitori ad offrire di più per meno e possono esternalizzare i siti di produzione a loro piacimento. I proprietari delle fabbriche nei paesi in via di sviluppo dicono di essere obbligati ad operare con margini minimi, e sono pochi a potersi permettere di dare salari migliori ai lavoratori o di realizzare investimenti in sicurezza e garantire il Tfr. “L'onere ricade sul fornitore”, ha affermato Genevieve LeBaron, professore presso la University of Sheffieldin England che si occupa di norme internazionali del lavoro.

“Ma c'è una ragione per cui l'attenzione continua a concentrarsi sulle aziende che si trovano più in alto nella catena di fornitura. Il loro comportamento può incidere sulla capacità delle fabbriche di far fronte alle loro responsabilità.

“Il trattamento di fine rapporto non ha ricevuto storicamente la stessa quantità di attenzione come altre forme di compensazione”, aggiunge LeBaron. “Ma dovrebbe riceverla. I lavoratori che perdono il posto di lavoro sono spesso i più vulnerabili. Quando non sono pagati quello che gli è dovuto, molti lavoratori sono costretti a prendere misure disperate o pericolose per sopravvivere.” Tutti i marchi principali pubblicano un codice di condotta sui diritti del lavoro.

Molti marchi dicono che i fornitori pagheranno ai lavoratori i benefit previsti dalla legge, ma, in alcuni casi, i proprietari di fabbrica possono nascondersi o rifiutarsi di pagare i lavoratori licenziati. In altri casi, i proprietari sostengono che i contratti di sfruttamento li hanno portati alla bancarotta o li hanno messi nell'impossibilità di avere un fondo per il Tfr.

Nel frattempo, vanno di mezzo i lavoratori dell'abbigliamento

In Bangladesh, Ali ha lavorato per 17 anni come operatore di maglieria presso A-One fabbrica di Dhakha, prima che chiudesse nell'aprile del 2020, licenziando 1.400 lavoratori. La fabbrica, fornitore di Benetton e Next, pagava in ritardo i lavoratori negli ultimi mesi e deve ancora pagare il TFR, che per la legge bengalese equivale a circa un mese di salario per ogni anno di servizio prestato. Ali, che possiede 350.000 taka, circa 4.130 dollari, ha incontrato difficoltà a trovare qualcosa di diverso da un lavoro occasionale nell'edilizia.

“E' così che molte persone hanno perso il loro posto di lavoro, e la situazione è ancora di più disperata,” racconta Ali in lingua bengalese. “Voglio credere che il danaro arriverà, perché cambierebbe tutto per me”.” L'ex proprietario della fabbrica A-One non ha risposto via e-mail alle domande fattegli.

In una dichiarazione inviata via e-mail. Benetton ha definito “marginale” il valore commerciale del rapporto che ha con la fabbrica A-One e non ha risposto alle domande relative al trattamento di fine rapporto.

Un portavoce dell'azienda tessile Next ha affermato che la fabbrica aveva precedentemente prodotto su ordinazione del marchio sussidiario Lipsy, e che il codice di condotta del marchio consociato prevedeva controlli per garantire che i lavoratori ricevessero quanto dovuto dopo la chiusura della fabbrica o dopo i licenziamenti. L'azienda non ha risposto alle domande relative ai mancati pagamenti dei TFR da parte della fabbrica A-One. La maggior parte dei marchi ha ridimensionato il loro legame con le fabbriche, quando il New York Times ha chiesto loro informazioni sui salari sottratti, anche se i codici di condotta aziendali non specificano che le responsabilità nei confronti dei lavoratori sono proporzionate all'entità dei loro ordini.

Yi è tra i 774 lavoratori ad essere stata licenziata nel mese di giugno dalla fabbrica Hana, situata in Cambogia, che rifornisce Walmart e Zara. I lavoratori devono ancora ricevere più di 1 milione di dollari di liquidazione. Sebbene Yi, 33 anni, abbia ricevuto all'inizio 500 dollari, deve ancora ricevere 1.290 dollari di liquidazione ed è ancora disoccupata.

La società madre di Zara, Inditex, ha riferito di non lavorare con la fabbrica da cinque anni. L'azienda Walmart ha dichiarato che credeva che la fabbrica avesse pagato a giugno la liquidazione dovuta ai lavoratori. Anche questi proprietari della fabbrica non hanno risposto via e-mail alle domande dei giornalisti.

“Siamo rattristati per la spiacevole difficoltà finanziaria in cui si trovano molte aziende a causa della pandemia e siamo particolarmente preoccupati per le conseguenze che questa ha sui lavoratori”, ha affermato la portavoce di Walmart. Ha aggiunto che l'azienda ha fatto sforzi per “riesaminare la responsabilità dei fornitori e il rispetto” degli standard e delle norme locali.

La fabbrica tessile Hulu a Phnom Penh, ex fornitore delle aziende Walmart, Amazon, Macy's e Adidas, devono 3.63 milioni di dollari a 1.000 lavoratori licenziati.

Adidas ha dichiarato di essersi rivolta alla fabbrica Hulu soltanto per piccoli ordini. Anche i proprietari della fabbrica Hulu non hanno risposto alle domande.

Fra tutte le aziende contattate dal New York Times, soltanto l'azienda Gap, che ha presentato ordini alle fabbriche citate nel rapporto in Indonesia, in Cambogia, in India e in Giordania, ha detto di aver svolto indagini sulle accuse mosse nel rapporto.

“Abbiamo confermato il pagamento della liquidazione o rimediato al pagamento delle liquidazioni in sospeso”, ha dichiarato una portavoce di Gap, che ha aggiunto che l'azienda svolgerà delle indagini per accertare che vi siano prove di eventuali liquidazioni non ancora pagate.

Mentre i consumatori esercitano pressione sulle aziende per fare ricorso e ripulire le catene di fornitura, i marchi “stanno riducendo la base dei fornitori”, ha affermato LeBaron.

“Questo nel lungo periodo potrebbe avere dei vantaggi, ma significherà che ci saranno ulteriori disagi, chiusure e licenziamenti”. “E significa che il dilemma delle liquidazioni diventerà ancora più diffuso”. “Significa che il lavoratore sarà vulnerabile con i licenziamenti o con le chiusure delle fabbriche durante la pandemia”.

Per leggere l'articolo originale: Garment Workers Worldwide Still Awaiting Severance Pay


Editoriale. La crisi universale sta evidenziando le nostre divisioni
The Guardian, 7 aprile 2021

Il Regno Unito deve procedere con cautela. Anche se alcuni paesi sembrano uscire dall'ombra, nessuno è al sicuro quando il Covid si diffonde così liberamente.

Marco Merlini

La pandemia ha cambiato la vita di miliardi di persone nel mondo, ma, oltre all'esperienza che hanno in comune, ha evidenziato ed ampliato le divisioni, anziché ridurle. Il Fondo Monetario Internazionale, martedì, ha avvertito che quest'anno le disuguaglianze all'interno e tra i paesi non solo continueranno, ma aumenteranno. Ha previsto che la ripresa dalla crisi delle nazioni occidentali ricche sarà più veloce di quanto si pensasse, e questo grazie al successo dei programmi vaccinali e alla capacità di aumentare la spesa pubblica e i prestiti, mentre i paesi in via di sviluppo incontreranno difficoltà. Il numero di persone che lo scorso anno si trovavano in situazioni di povertà estrema è stato maggiore di 95 milioni rispetto alle previsioni realizzate prima della pandemia.

Allo stesso tempo, si sta aprendo una divisione tra i luoghi che stanno conoscendo una sorta di normalità nuova, con gran parte della vita che assume sembianze riconoscibili, tra cui la Cina, dove il virus è scoppiato per primo, e quei luoghi che stanno sprofondando sempre più nel disastro. La Nuova Zelanda e l'Australia prevedono di aprire la bolla di viaggio sopra il Mare di Tasman. Taiwan, dove le folle si mescolano felicemente, forse è la più grande storia di successo. In Israele, dove oltre la metà della popolazione è stata vaccinata, la vita quotidiana sembra a molti essere quelle precedente alla pandemia, anche se i Palestinesi in Cisgiordania e a Gaza continuano a restare sotto regole rigorose con tassi di infezioni relativamente elevati. Il governo israeliano è stato condannato per non aver vaccinato milioni di persone che si trovano sotto il suo controllo militare. (Ha vaccinato 100.000 persone che lavorano in Israele o negli insediamenti ebraici).

L'India, nel frattempo, ha registrato il bilancio più alto di nuovi contagi in un solo giorno: oltre 100.000 contagi. L'Europa sta combattendo con la terza ondata. In America Latina, l'aumento del virus ha colpito persino il Cile, che si colloca al terzo posto nel mondo per le vaccinazioni pro capite realizzate. La scorsa settimana, il Cile ha chiuso, i confini dopo aver registrato due aumenti giornalieri record di seguito.

Questo manda un messaggio agghiacciante alla Gran Bretagna, dato che sta allentando gradualmente le restrizioni, ma sta affrontando un viaggio lungo per tornare a qualcosa che assomiglia alla vita che conoscevamo. La gente si sta riunendo felicemente con amici e famiglie. Ma l'ufficiale medico capo, Chris Whitty, ha avvisato che un'altra ondata del Covid sarà inevitabile, e i documenti rilasciati dal Gruppo Scientifico Consultivo per le emergenze prevede che il picco di contagi si verificherà a fine estate, con lo scenario peggiore di una situazione come quella del mese di gennaio, quando si registrarono la metà dei decessi causati dal Covid.

Il Cile è una dimostrazione del pericolo di affidarsi soltanto ai vaccini, e forse del pericolo di creare un falso senso di sicurezza. Il primo ministro inglese dovrebbe prestare attenzione, mentre la destra dei Tory lo sprona ad accelerare un rilassamento delle misure restrittive. Non è ancora chiaro fino a che punto il vaccino previene l'infezione e il Regno Unito sta affrontando un forte rallentamento del ritmo delle vaccinazioni. Il ritmo dell'allentamento delle restrizioni non deve superare quello delle vaccinazioni e deve essere accompagnato dai livelli di infezione. L'altro rischio è posto dall'importazione delle varianti che si diffondo velocemente o che potrebbero persino rivelarsi resistenti ai vaccini esistenti, nel caso in cui venisse estesa la possibilità di viaggiare all'estero.

Il virus e le sue varianti hanno dimostrato quanto siamo vulnerabili alle decisioni prese da altre nazioni, nonché dalle decisioni prese dai nostri stessi governi. I paesi più ricchi dovrebbero garantire una quota più equa di vaccini, in modo più puntuale, rispetto a quanto hanno fatto fino ad ora, magari assegnando la priorità ad aree che presentano il rischio maggiore di contrarre le varianti che stanno nascendo. Anche se i capi di Stato e di Governo nel mondo parlano di piani per contrastare le pandemie future, non riescono a lavorare insieme per contrastare questa pandemia. Sembra che alcuni paesi, almeno per ora, stiano uscendo dall'ombra del Covid, ma nessun paese può essere sicuro di andare avanti da solo.

Per leggere l'articolo originale: A universal crisis is revealing our divisions


Nessuno sarà al sicuro finché non lo saranno tutti
di Joseph E. Stiglitz, Joseph E. Stiglitz e Jayati Ghosh
El Pais, 6 aprile 2021

È urgente sospendere i diritti di proprietà intellettuale dei prodotti necessari per combattere il Covid-19 e attivare meccanismi per la ripresa delle economie meno sviluppate

Marco Merlini

Gli Stati Uniti sperano di diventare “indipendenti” dal Covid-19 il 4 luglio (giorno dell’indipendenza del paese), quando l’intera popolazione adulta sarà vaccinata. Ma per molti paesi in via di sviluppo ed emergenti, la fine della crisi è ancora molto lontana. Come mostra il rapporto della Commissione per la Trasformazione Economica Mondiale dell’Istituto per il Nuovo Pensiero economico (INET), per garantire una ripresa rapida globale è necessario che tutti i paesi possano dichiararsi indipendenti dal virus.

La capacità di mutazione del coronavirus comporta che nessuno sarà al sicuro finché il virus non sarà posto sotto controllo ovunque. Per questo motivo è essenziale realizzare quanto prima una distribuzione universale dei vaccini, dei dispositivi di protezione individuale e dei trattamenti. Le restrizioni attuali delle forniture di questi elementi sono fondamentalmente artificiali, in quanto sono il risultato di un regime internazionale di proprietà intellettuale ideato male.

Ma al di là della riforma di questo regime da tempo ritardata, ciò che si rende necessario con urgenza è la sospensione dei diritti di proprietà intellettuali assegnati ai prodotti necessari per combattere il Covid-19 o la creazione di fondi comuni di brevetto per condividere il loro uso (pooling). Molti paesi chiedono queste misure, ma gli interessi corporativi delle economie avanzate hanno fatto resistenza, e i loro governi sono miopi. L’ascesa del nazionalismo pandemico ha evidenziato una serie di carenze nei sistemi internazionali del commercio, degli investimenti e della proprietà intellettuale (che la commissione INET analizzerà in un rapporto che seguirà).

Le economie avanzate, soprattutto gli Stati Uniti, hanno agito con determinazione per rilanciare le loro economie e sostenere le famiglie e le imprese vulnerabili. Hanno capito (anche se forse è una lezione passeggera) che in una crisi come questa, le misure di austerità sono profondamente controproducenti. Ma la grande maggioranza dei paesi in via di sviluppo incontrano grandi difficoltà ad ottenere fondi per mantenere i programmi di sostegno esistenti, per non parlare della capacità di assorbire i costi aggiuntivi imposti dalla pandemia. Gli Stati Uniti hanno speso il 25% del PIL in misure di sostegno all’economia (riuscendo a contenere il rallentamento), ma i paesi in via di sviluppo hanno potuto soltanto spendere una percentuale molto inferiore.

I nostri calcoli, basati sui dati della Banca Mondiale, mostrano che la spesa pubblica degli Stati Uniti, dell’ordine di 17.000 dollari pro-capite, è stata 8.000 volte maggiore rispetto a quella dei paesi meno sviluppati. Insieme all’uso risoluto della politica fiscale, ci sono tre misure che, oltre a contribuire alla ripresa economica mondiale, i paesi sviluppati possono adottare e di cui beneficeranno. In primo luogo, immettere una grande quantità di diritti speciali di prelievo - DSP - l’attività di riserva globale del Fondo Monetario Internazionale. L’FMI è in grado di emettere immediatamente 650 miliardi di dollari di DSP, senza l’approvazione dei parlamenti nazionali. L’effetto espansivo della misura sarà maggiore se i paesi ricchi trasferiranno le loro quote sproporzionate dei diritti speciali di prelievo ad altri paesi che hanno bisogno di liquidità.

Anche il secondo pacchetto di misure riguarda il FMI, considerata la sua influenza in materia di politica macroeconomica dei paesi in via di sviluppo, in particolare quei paesi in via di sviluppo che si rivolgono al FMI per risolvere i loro problemi di bilancia dei pagamenti.  È incoraggiante che il FMI abbia promosso attivamente l’attuazione di programmi di aiuti fiscali ampi e lunghi negli Stati Uniti e nell’Unione europea, e che abbia persino riconosciuto la necessità di aumentare la spesa pubblica nei paesi in via di sviluppo, nonostante le condizioni esterne avverse.

Purtroppo, nel momento di stipulare i termini dei prestiti ai paesi che presentano problemi di bilancia di pagamenti, le azioni del FMI non sempre coincidono con le sue dichiarazioni. Da un’analisi recente condotta da Oxfam International sui programmi di aiuto del FMI in corso tra marzo e settembre 2020, risulta che nei 76 dei 91  prestiti negoziati dal FMI con 81 paesi sono stati richiesti tagli alla spesa pubblica, che potrebbero comportare un deterioramento dei sistemi sanitari  e pensionistici, un congelamento dei salari dei dipendenti pubblici (tra cui il personale medico e docente) e una riduzione dell’assicurazione contro la disoccupazione, dei congedi per malattia e di altre prestazioni sociali. L’austerità (soprattutto tagli da realizzare in queste aree essenziali) non porterà nei paesi in via di sviluppo risultati migliori di quelli realizzati nei paesi sviluppati. Inoltre, quei paesi potranno utilizzare un margine fiscale maggiore se ricevessero maggiore assistenza (compresa la suddetta emissione dei diritti speciali di prelievo).

Infine, i paesi sviluppati sono in grado di organizzare una risposta globale ai problemi enormi del debito che molti paesi devono affrontare. Tutto il danaro destinato a pagare i debiti è danaro che non si usa per combattere il virus per rilanciare l’economia. Nella fase iniziale della pandemia, si sperava che una sospensione dei pagamenti del debito dei paesi in via di sviluppo e dei paesi emergenti sarebbe stata sufficiente, ma dopo un anno, alcuni debitori hanno bisogno di fare una ristrutturazione completa, invece di ricorrere ai solidi rimedi che non fanno altro che creare le condizioni di una prossima crisi.

I paesi creditori possono fare molto per facilitare queste ristrutturazioni e incoraggiare una partecipazione più attiva del settore privato (che fino ad ora si è dimostrato abbastanza restio a collaborare). Come evidenzia il rapporto della Commissione, se c’è un momento per far valere i principi di forza maggiore e necessità, questo è adesso. Non si può chiedere ai paesi che pagano quanto non sono in grado di pagare, soprattutto se avverrà a costo di tante sofferenze. 

Le politiche fin qui descritte sarebbero di grande aiuto ai paesi in via di sviluppo e costerebbero poco e niente ai paesi sviluppati. Infatti, il noto interesse del mondo sviluppato richiede di fare tutto il possibile per aiutare i paesi in via di sviluppo ed emergenti, soprattutto quando è talmente facile e andrebbe a vantaggio di gran parte dell’umanità. La dirigenza politica dei paesi sviluppati deve capire che nessuno sarà al sicuro finché non lo saranno tutti, e che lo stato di salute dell’economia globale dipende da una ripresa diffusa.

Per leggere l'articolo originale: Nadie estará a salvo mientras no lo estén todos

 

Come l’Europa ha gestito male la pandemia
The Economist, 3 aprile 2021

Che cosa è accaduto e che cosa significa per l’Unione europea?

Daiano Cristini/Sintesi

Se guardiamo nel mondo alla devastazione provocata dalla pandemia del Covid-19 qualcosa non ha funzionato. L’Unione europea è ricca, avanzata sul piano scientifico e dotata di sistemi sanitari e del welfare eccellenti e di un consenso politico orientato a tutelare i cittadini. Eppure, durante la pandemia si è impantanata.

Nella classifica brutale e sbrigativa dei decessi per Covid, l’Unione europea nel suo complesso ha fatto meglio della Gran Bretagna o dell’America, con 138 decessi su 100.000, rispetto ai 187 e ai 166 decessi registrati rispettivamente dalla Gran Bretagna e dall’America, anche se l’Ungheria, la Repubblica Ceca e il Belgio hanno fatto peggio di tutti. Tuttavia, è in preda ad un'ondata feroce alimentata da una variante letale. Questo indica che il tasso basso delle vaccinazioni contro il Covid in Europa è un pericolo. Secondo i dati del tracker dell'Economist, il 58% dei britannici adulti sono stati vaccinati, rispetto al 38% degli americani e ad appena il 14% dei cittadini europei. I paesi europei sono ritardo anche rispetto ad un altro criterio, quello economico. Nell’ultimo trimestre del 2020 l’America è cresciuta ad un tasso annuo del 4.1%. La Cina, dove il virus è stato messo sotto controllo con un rigore totalitario, la crescita è stata del 6.5%. Nella zona euro l’economica si sta ancora contraendo. Il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, un anno fa definì la crisi del Covid 19 la peggiore crisi che avesse mai colpito l’Unione europea dalla Seconda guerra mondiale. Come mai la risposta dell’Unione europea è andata così male?

Parte del problema sta nella demografia dell’Europa. In base agli standard globali, la popolazione dell’Unione europea è invecchiata, questo la rende più incline ad ammalarsi. La mobilità transfrontaliera, che è una delle grandi conquiste dell’Unione europea, probabilmente è andata a favore del virus, e nessuno vorrà limitarla quando la pandemia si attenuerà.

Ma parte del problema è politico. Jean Monnet, il diplomatico francese che contribuì a creare il progetto europeo, scrisse che “l’Europa sarà forgiata in una crisi”. Quelle parole sono state colte per suggerire che, quando la situazione va male, l’Unione europea strapperà la vittoria dalle fauci della sconfitta. Difatti, durante la crisi dell’euro la Banca Centrale Europea salvò la situazione con politiche nuove. Analogamente, la crisi migratoria del 2015 ha rafforzato molto Frontex, la forza di sicurezza di frontiera dell’Unione europea.

Tuttavia, l’affermazione di Monnet è anche motivo di compiacimento. La guerra civile in Iugoslavia negli anni ’90 portò a dichiarare che “Questa è l’ora dell’Europa”. Seguirono anni di carneficine. La stessa dichiarazione dello scorso anno di dare alla Commissione europea la piena responsabilità di acquistare e distribuire i vaccini anti Covid – 19 a 450 milioni di persone è stato un disastro.

Avrebbe avuto senso che i 27 paesi europei collaborassero per finanziare il preacquisto dei vaccini, proprio come avvenne con l’operazione Warp Speed in America che mise insieme 50 stati. Invece, la burocrazia dell’Unione Europea ha gestito male i negoziati sui contratti, forse perché i governi nazionali di solito gestiscono la salute pubblica. Il progetto è stato gestito principalmente dal presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha definito felicemente la decisione di espandere il suo impero una “storia di successo per l’Europa”.

Non è stato proprio così. La sua squadra si è concentrata troppo sul prezzo e troppo poco sulla sicurezza delle forniture dei vaccini. Hanno discusso inutilmente sulla responsabilità nel caso in cui i vaccini avessero causato danni. L’Europa ha esitato durante le vacanze di agosto. È stato come se la creazione di un’unione sempre più stretta tra i paesi, come quella di Monnet, fosse il vero premio e il compito di gestire realmente le vaccinazioni un fatto secondario. I diverbi che sono seguiti successivamente., le precisazioni e la minaccia di bloccare le esportazioni di vaccini non hanno fatto altro che indebolire la fiducia nelle vaccinazioni invece di recuperare la reputazione della Commissione. Se von der Leyen fosse stata un membro di un governo nazionale, sarebbe stato difficile vederla ancora in carica.

L’Europa ha fallito anche sul piano economico. Ha di nuovo usato la pandemia per fare progressi istituzionali, creando un nuovo strumento robusto, noto come Next Generation EU Fund, o NGEU, da 750 miliardi di euro, destinato principalmente ai paesi più deboli che ne hanno più bisogno. Più della metà del danaro è composto da sussidi e non da prestiti, il che riduce le conseguenze sul debito nazionale. Inoltre, viene erogato con l’aumento del debito per il quale l’Unione è, nel suo insieme, solidamente responsabile.  Questo è ben accetto, perché crea un meccanismo che rompe il legame tra la raccolta dei fondi e l’affidabilità creditizia dei governi nazionali. Questo meccanismo potrebbe proteggere i paesi della zona euro dalla fuga di capitali nelle crisi future.

Tuttavia, come nel caso dei vaccini, il successo per la creazione del Next Generation EU Fund nasconde una lenta attuazione. I primi soldi saranno erogati tra mesi, mentre gli Stati membri discutono dei programmi nazionali con la commissione. Entro la fine del prossimo anno sarà stato erogato solo un quarto del fondo.

Tale mancanza di urgenza è sintomo di un problema molto più grande: la noncuranza alla base della salute delle economie europee. Anche mettendo a disposizione il nuovo fondo, il bilancio dell'Ue rappresenterà solo il 2% del Pil nei prossimi sette anni.  Gli europei sono stati decisamente troppo cauti a livello nazionale, dove i governi in genere spendono circa il 40% del Pil.

Le conseguenze saranno profonde. Si prevede che entro la fine del 2022 l'economia americana aumenterà del 6% rispetto al 2019. L'Europa, invece, è difficile che riuscirà a produrre più di quanto facesse prima della pandemia. È vero, che il pacchetto di stimoli da 1.9 trilioni di dollari di Joe Biden dopo quasi 4 trilioni di dollari iniettati nell'era Trump rischia di surriscaldare l'economia, ma l'Europa si trova all'estremo opposto. Forse il suo deficit di bilancio per il 2021 è in media la metà di quanto l'America sta pianificando. Dopo la concomitanza della crisi finanziaria e del Covid-19, la produzione dell'Ue sarà del 20%, ovvero di 3 trilioni di euro, inferiore rispetto alla crescita gestita nel 2000-07. L' Ue ha sospeso le sue regole di bilancio che limitano il deficit. Grazie in parte all'attivismo monetario della Banca Centrale Europea i governi europei hanno lo spazio fiscale per fare di più che dovrebbero usare.

L'Europa può sentirsi rassicurata dal fatto che il programma vaccinale si riprenderà durante l'estate. In tutto il continente, l'euroscetticismo è diminuito durante la pandemia e i politici che flirtavano con l'idea di abbandonare l'Ue, come Matteo Salvini o Marine Le Pen, hanno cambiato tono. Ma l'Ue resta inevitabilmente indietro rispetto alla Cina e all'America perché non riesce ad affrontare con competenza ogni crisi successiva.  Questa è un'abitudine che deve cambiare in un mondo pericoloso e instabile.

Per leggere l'articolo originale: How Europe has mishandled the pandemic