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Oggi e domani all’Aja i vertici della Nato si riuniranno per ridiscutere la storica soglia del 2% del Pil destinato alla spesa militare. Una soglia che, undici anni dopo il vertice di Newport, non sarà più solo un obiettivo indicativo, ma un tetto minimo obbligatorio. In questo nuovo scenario l’Italia cerca di non farsi trovare impreparata. Come? Cambiando il modo in cui misura la sua “contribuzione alla sicurezza collettiva”.
Non un vero aumento di bilancio, ma un allargamento dei criteri. Il ministero della Difesa ha annunciato lo scorso 20 giugno una revisione del calcolo, includendo nel computo non solo la spesa militare diretta, ma anche una serie di ambiti “ibridi”: cybersicurezza, controllo delle frontiere, protezione delle infrastrutture critiche, contrasto alla disinformazione e persino transizione energetica. Voci finora escluse che però, secondo il governo, riflettono la natura mutevole delle minacce globali.
Verso l’obiettivo (gonfiando i numeri)
Secondo Mil€x, l’osservatorio indipendente sulle spese militari, il costo italiano per il 2025 ammonta a 32,46 miliardi di euro, pari all’1,42% del Pil. Aggiungendo le spese indirette si sale all’1,46%. Troppo poco rispetto all’obiettivo Nato. Con il nuovo metodo, il governo punta a includere anche fondi stanziati da altri ministeri, in particolare quelli legati a sicurezza interna, innovazione tecnologica e difesa cibernetica, per dimostrare un impegno che, almeno sulla carta, si avvicini alla fatidica soglia.
Non è un’operazione nuova: Francia, Germania e Olanda la praticano da anni. Ma per l’Italia è arriva in extremis, a pochi giorni da un vertice che potrebbe ridefinire gli equilibri interni all’Alleanza Atlantica. Se l’obiettivo salisse sopra il 2%, come richiesto da Washington, il divario rischierebbe di diventare ancora più ampio. Per colmarlo davvero, servirebbero almeno 9,7 miliardi in più.
La Spagna dice no
Il premier spagnolo Pedro Sanchez è riuscito a strappare un’esenzione al segretario generale della Nato, Mark Rutte, e confermato che la Spagna destinerà alla difesa il 2,1 per cento del proprio prodotto interno lordo, “né più né meno”. In particolare il governo di Madrid ha ottenuto una maggiore flessibilità nella dichiarazione congiunta che verrà firmata al vertice. L’asticella del 5 per cento – che dovrà essere composta da un 3,5 per cento di spesa militare classica e dal restante 1,5 per cento per investimenti nelle tecnologie a doppio uso, civile e militare – potrà essere evasa centrando gli obiettivi di capacità assegnati dall’Alleanza ai 32 Paesi membri.
Una nuova idea di sicurezza?
Il ministro della Difesa Crosetto e la premier Meloni difendono la scelta come “una visione moderna della sicurezza”, più ampia, interministeriale, in linea con le sfide ibride del presente. Ma c’è chi parla di trucco contabile. O peggio: di scivolamento verso un modello di sicurezza sempre più centrato sull’apparato militare, a scapito delle urgenze civili.
La conferma arriva dal ministro degli Esteri Antonio Tajani: “Avendo ottenuto sia il prolungamento dei termini” dal 2030 al 2035 “sia la flessibilità”, l’Italia “potrà raggiungere l’obiettivo” del 5 per cento. Il vicepremier ha sottolineato che “non si tratta soltanto di una spesa per la difesa, ma per la sicurezza”.
Il vero nodo non è tecnico, ma politico. Con questa mossa, il nostro Paese prova a guadagnare credibilità internazionale senza aumentare realmente la spesa. Ma la domanda resta: quanto pesa la sicurezza nella visione di un paese che taglia su scuola e sanità? E quale idea di difesa stiamo costruendo?