Ci sono tre guerre in Ucraina. Occorre imparare a distinguerle se si vuole capire cosa succede e cercare di fermarle. La prima, la più visibile, quella su cui i giornali e i politici parlano e commentano, è quella della Federazione Russa contro la Repubblica Ucraina. O meglio: del governo russo, che ha ordinato l’invasione, contro le popolazioni ucraine, che si sono svegliate una mattina con i carri armati sotto casa.

La seconda, che la precede, è una guerra interna tra opposti nazionalismi. Il nazionalismo ucraino, che vorrebbe un Paese derussificato, cominciando con l’abolizione della lingua parlata dal 20 per cento della popolazione, e il nazionalismo russo, quello grande-russo di Putin e quello ucraino che invece di democrazia e rispetto dei diritti delle minoranze ha cercato la secessione unilaterale e imbracciato le armi.

Poi c’è la guerra per il dominio del globo, che si nutre del nazionalismo per mobilitare il consenso e della retorica dei diritti umani per giustificare la politica di potenza. È la “guerra mondiale a pezzi” alimentata dalla volontà degli Usa di rendere permanente la “supremazia” che il crollo sovietico le consegnava. La scelta dell’unipolarismo ha messo fuori gioco le Nazioni Unite e ha rilanciato la corsa agli armamenti. È la guerra che Putin e l’oligarchia russa hanno deciso di combattere sul territorio e sui corpi degli uomini e delle donne ucraini. Anche per l’establishment russo, infatti, dopo l’89 non può esserci un mondo basato sulla cooperazione tra i popoli, ma deve permanere la spartizione tra le grandi potenze.

Solo nella prima di queste tre guerre si può stare da una parte: la parte di chi sta sotto. Di quelli la cui vita è stata travolta, che dormono nelle cantine, uccisi da ordigni sganciati a migliaia di chilometri. Ed è la parte dei ragazzi russi, mandati a morire con una divisa indosso e la testa riempita di sciocchezze nazionaliste, bruciati nei carri armati, giustiziati a freddo. Ed è anche la parte dei disertori che da entrambe le parti sono incarcerati.

Di questa guerra non c’è che un responsabile. Nessuna delle circostanze che descrivono il processo, può essere addotta a giustificazione della scelta di invadere un Paese. Né l’accerchiamento militare, né la violazione dei diritti delle minoranze. Esistono sempre delle alternative, e la guerra non è tra queste. Per questo i pacifisti non sono “equidistanti”. Per questo chiedono che l’esercito russo si ritiri. Per questo i pacifisti hanno organizzato carovane per portare aiuti e sostengono chi si oppone alla guerra in Russia e in Ucraina. Per questo i pacifisti sono contrari all’invio di armi che prolungherebbero il conflitto e aumenterebbero il numero delle vittime.

Ma nelle altre due guerre, senza le quali non ci sarebbe la prima, non si può essere partigiani. Il conflitto nazionalistico e il conflitto geopolitico devono essere fermati con la diplomazia, il dialogo e anche il compromesso. Per aiutare a risolvere il conflitto nazionalistico una politica estera di neutralità attiva da parte italiana dovrebbe mettere a disposizione l’esperienza positiva di soluzione del conflitto etnico in Sud Tirolo e chiarire la non disponibilità al riconoscimento di nuovi Stati senza separazione consensuale e all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea senza che i diritti delle minoranze linguistiche siano pienamente riconosciuti.

Ma è rispetto al conflitto “geopolitico”, che attraversa tutti i conflitti in corso, che la politica estera della neutralità attiva assume maggiore significato strategico. La guerra globale nell’epoca nucleare deve essere evitata a ogni costo. Non si tratta di cercare ragioni o torti, di decidere se è meglio Exxon o Gazprom, ma di trovare un punto di mediazione e per questo serve un’Europa neutrale. La proposta pacifista è quella della sicurezza condivisa dall’Atlantico agli Urali, del disarmo multilaterale e del perseguimento dell’equilibrio invece della supremazia.

Fabio Alberti, Un Ponte Per, membro dell’esecutivo Rete Italiana Pace e Disarmo