“Parla Imre Nagy, presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica popolare di Ungheria. Nelle prime ore del mattino, truppe sovietiche hanno attaccato la nostra capitale con la palese intenzione di rovesciare il democratico e legittimo governo ungherese. I nostri soldati stanno combattendo. Il governo è al suo posto. Informo di questi fatti il nostro popolo e l’opinione pubblica mondiale”. Questo radiomessaggio, diffuso alle 5 e 20 del mattino del 4 novembre 1956 e ripetuto anche in inglese, russo e francese, sarà il penultimo atto della rivolta di Budapest prima della richiesta di cessazione delle ostilità del 10 novembre.

Le vittime ungheresi, da una parte e dall’altra, saranno circa 2.700. 341 persone saranno processate e messe a morte negli anni seguenti. Saranno arrestate circa 22 mila persone, mentre migliaia di altre finiranno in campi di internamento e rieducazione, perderanno il lavoro o saranno sottoposte a restrizione della libertà personale. La stima di coloro che abbandonarono l’Ungheria è di circa 200 mila persone. L’eco degli avvenimenti ungheresi sarà un ciclone che scuoterà l’occidente e i partiti comunisti innanzitutto.

Il Partito comunista italiano sarà abbandonato, tra il 1956 e il 1957, da numerosi iscritti, con la fuoriuscita di personaggi del calibro di Antonio Giolitti, Natalino Sapegno, Italo Calvino (l’intervento in Ungheria susciterà il dissenso di numerosi intellettuali di sinistra, molti iscritti al Pci, i quali deploreranno l’azione sovietica attraverso una lettera-documento conosciuta come ‘Il Manifesto dei 101’, mai pubblicata sul giornale del Partito. Molti saranno dall’altro lato gli intellettuali e gli uomini di cultura che abbracceranno la linea del Partito stesso.

“Alla cagnara reazionaria, clericale e fascista che si è scatenata in Ungheria non intendo associare la mia voce - sarà la posizione di Concetto Marchesi - Se taluni comunisti lo hanno fatto, tanto peggio per loro e tanto meglio per il nostro partito (…) Quanto all’insurrezione ungherese penso che un popolo non rivendica la sua libertà tra gli applausi della borghesia capitalistica e le celebrazioni delle messe propiziatorie (…) Quanto all’on. Togliatti, io mi trovo in questo momento al suo fianco”. “Bisogna scegliere: o per la difesa della rivoluzione socialista o per la controrivoluzione bianca, per la vecchia Ungheria fascista e reazionaria”, scriveva il 25 ottobre 1956 su l’Unità Pietro Ingrao nell’editoriale dal titolo Da una parte della barricata a difesa del socialismo, un editoriale definito dallo stesso Ingrao nel 2001 un errore).

All’VIII Congresso del Partito (Roma, 8-14 dicembre 1956), il delegato di Cuneo Antonio Giolitti denuncerà l’impossibilità di continuare a definire legittimo, democratico e socialista ‘un governo come quello contro cui è insorto il popolo di Budapest’, definendo ingiustificabile l’intervento sovietico ‘in base ai principi del socialismo’. Sul finire del successivo mese di luglio spedirà la sua lettera di dimissioni, pregando che sia resa pubblica.

Seppure molto sensibile alle posizioni di Giolitti, Bruno Trentin sarà nettamente contrario alla sua decisione di abbandonare il Pci, ritenuta un passo indietro rispetto a una battaglia politica che ritiene invece possibile sostenere all’interno del Partito:

Ti scrivo ora, un po’ confusamente, le prime cose che sento di doverti dire, ancora sotto l’influsso del dolore che la tua decisione ha provocato in me (…). Mi trovo così ancora smarrito e confuso, fra la tristezza, la consapevolezza che la tua scelta è stata dettata da sentimenti nobili e comunque rispettabili e una sorta di rabbia - vedi, ti parlo a cuore aperto - per il significato politico che la tua scelta viene a prendere. (…) Lo sapevi; non posso condividere la tua decisione: né per il suo contenuto sostanziale (la sfiducia nelle possibilità intrinseche di rinnovamento del Partito) né per il quadro politico in cui esso nasce (per cui essa si profila in paradossale contrasto con i recenti avvenimenti dell’Urss e le loro storiche, inevitabili, conseguenze) né per le conclusioni che essa comporta (…). Su di te, bene e male, ricadeva in buona parte, il peso di una battaglia conseguente per il rinnovamento del Partito (…) Le tue dimissioni non comportano soltanto un declino di questa responsabilità. Esse vengono ad affermare una cosa non vera e non accettabile: la impossibilità di assumerle nell’ambito del Partito (…). Antonio, so che capirai come la passione polemica, la rabbia che ho lasciato esprimere in questa lettera, sono proprio la migliore e più dura testimonianza dei sentimenti che mi legano a te. Tu conosci, nel mio comportamento, la stima e l’amicizia che io provo nei tuoi confronti. Sono sicuro quindi che capirai come soltanto con questa franchezza, con questa libera testimonianza del mio dolore e del mio dissenso, può rimanere salda la nostra amicizia e le nostre future possibilità di autentico incontro, nelle quali non dispererò mai.

Il 7 agosto dello stesso anno l’Unità pubblicherà anche la lettera di dimissioni di Italo Calvino (“Commosso condivido la tua posizione sui fatti d’Ungheria”, scriveva il partigiano a Di Vittorio), una lettera che l’autore medesimo definirà "d’amore":

Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal Partito (…) Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita: vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita del Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio campo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo m’è stata di sprone a cercar di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa; credo d’esser sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può esser garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori”

(l’articolo-lettera di Calvino appare sulla settima pagina del giornale che titolerà Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino, pubblicando subito sotto, in basso a destra, la risposta del Comitato).

Calvino racconterà che la sera dell’invasione sovietica del 4 novembre era a cena con Amendola a Torino, a casa di Luciano Barca: “Mentre Amendola parlava, Gianni Rocca, che allora era redattore capo de l’Unità, telefonò a Barca (…) Ci disse: i carri armati stanno entrando a Budapest, si combatte per le strade. Guardai Amendola. Eravamo tutti e tre come colpiti da una mazzata. Poi Amendola mormorò: 'Togliatti dice che ci sono momenti nella storia in cui bisogna essere schierati da una parte o dall’altra. Del resto il comunismo è come la Chiesa, ci vogliono secoli per cambiare posizione. E poi in Ungheria si stava determinando una situazione pericolosissima'. Capii che il tempo dei cento fiori nel Pci era ancora lontano”.