Scuote la coscienza, riaccende l’immaginario, colma le piazze. L’effetto dirompente sortito dalla Global Sumud Flotilla sulla nostra opinione pubblica non si spiega per semplice vizio eurocentrico – come se a destare preoccupazione fosse più la sorte di un drappello di attivisti occidentali, rispetto a quella di decine di migliaia di palestinesi già massacrati. Si spiega, piuttosto, perché quella missione, solcando il Mediterraneo alla volta di Gaza, ha offerto a tutti noi una possibilità di riscatto.

Per quanto assolti, per ragioni anagrafiche, da un passato coloniale remoto, siamo tutti pur sempre coinvolti dal suo strascico, vale a dire, dal privilegio di cui godiamo tuttora. Tangibile, ad esempio, nella facoltà di muoverci per il mondo, derivante dall’avere il giusto passaporto in tasca. Una facoltà che lo Stato di Israele preclude, oggi a chi è a bordo della Flotilla, da sempre a chiunque abbia tentato di recarsi in Palestina non da turista o pellegrino cristiano.

Con Gaza sotto assedio e i territori della West Bank confinanti con la Giordania classificati come “Area C”, ossia soggetti all’amministrazione civile e militare israeliana, atterrare a Tel Aviv è da anni il modo più semplice di arrivare in Palestina. Nessuno sfugge all’interrogatorio in uscita dall’aeroporto Ben Gurion, tutti ne escono classificati in base a un indice di presunta pericolosità.

“Perché sei qui?”, “Che lavoro fai nel tuo Paese?”, “Che relazione c’è tra voi che viaggiate insieme?”, “Che luoghi avete visitato in questi giorni?”, “Potete farci vedere le foto che avete scattato?”, “Puoi aprire la tua borsa?”, “Perché hai acquistato una kefiah?”. Se in Palestina ci sei andato per solidarietà al suo popolo, sai che rispondere sinceramente a queste domande è troppo rischioso.

E se poi ti comminano un Deny entry e non ci puoi più tornare? Scegli di mentire, di raccontare una vacanza che non hai mai vissuto. Poco importa che una voce interiore ti sussurri “Non ho fatto nulla di male”, eccole le foto di Gerusalemme e Betlemme, ad annusare spezie esotiche, rendere omaggio al Muro del Pianto, passeggiare sul “Monte del Tempio” – occhio a non confonderti e chiamarlo “Spianata delle Moschee”!

Nascondi il resto. Non hai dormito nel campo profughi, non hai giocato con i bambini nati e cresciuti lì, non hai udito le incursioni notturne dell’Idf, il lancio di gas tra le case per addestrare le sue nuove leve, non hai camminato lungo il muro dell’apartheid né hai assistito alle umiliazioni subite dai palestinesi ai checkpoint, non hai misurato l’altezza della rete che protegge il Suq di Al Khalil dal lancio di sassi ed escrementi, non hanno puntato un fucile sulla macchina in cui ti muovevi verso Nablus perché quella è strada lungo cui si costruiscono nuove colonie illegali che, d’altronde, non hai visto.

Il senso di colpa per non aver rivendicato un atto di solidarietà, la frustrazione di chi di fronte al genocidio protestava già da tempo restando inascoltato, la rassegnazione di chi si crede troppo piccolo rispetto a un’ingiustizia così grande e sì, anche la presunzione di chi – occidentale, abituato all’idea di poter vagare per il mondo senza limiti – si scopre limitato nel suo privilegio coloniale di ieri da una prepotenza coloniale di oggi. La Global Sumud Flotilla ci ha offerto una possibilità di riscatto da tutto questo, umanitaria e politica, simbolica e concreta. Noi, flotta di terra, per una volta uniti agli oppressi e non affiliati agli oppressori.