“In Palestina c’è un popolo che soffre e che sta morendo. Ci sono persone, donne e uomini, che hanno già vissuto nel 1948 la Nakba (l'esodo forzato di 700mila arabi palestinesi dai territori occupati nel corso della prima guerra arabo-israeliana, ndr) e che adesso stanno rivivendo la stessa tragedia”.

A parlare è Paola Caridi, giornalista, storica del vicino Oriente, profonda conoscitrice di Hamas, su cui ha scritto un libro, uscito per la prima volta nel 2009, e oggi in libreria con una nuova edizione (Feltrinelli), dal titolo “Hamas, Dalla resistenza al regime”. Mentre scriviamo è scattata una flebile tregua con l'atteso rilascio dei primi ostaggi israeliani da un lato e l'inizio della liberazione dei detenuti palestinesi dall'altro. Ma le notizie degli eventi tragici, delle uccisioni, dei bombardamenti si rincorrono da settimane e la cronaca va così veloce che è difficile stargli dietro.

Ma cosa stia davvero accadendo lì, in quel pezzetto di terra conteso da decenni, 365 chilometri quadrati abitati da 2 milioni e 200 mila persone, di cui 1,3 milioni in stato di necessità, non si sa con precisione. “Bisogna dire le cose come stanno – riprende Caridi -. C’è una guerra e c’è una popolazione civile che è a rischio espulsione dalla sua terra da cinque settimane”.

È proprio questo il pericolo? Lo sfollamento dei palestinesi dalla Striscia?
Quello che si rischia davvero è una nuova Nakba di Gaza, questo deve essere chiaro. C’è mezzo governo israeliano che sta parlando di Nakba, di espulsione. A ciò si aggiunge quello che sta accadendo in Cisgiordania, sotto l’occhio benevolo di chi non dice ‘basta’. L’idea che ogni Stato arabo, peraltro considerato moderato, si prenda un pezzo di popolo palestinese non fa i conti con quello che significa veramente questa cosa, anche dal punto di vista della stabilità interna, della sicurezza della regione.

Quali potrebbero essere i nuovi equilibri nella regione?
La situazione è davvero difficile e gli equilibri destabilizzati. Non solo in Libano, dove Hezbollah ha scaramucce con Israele e per adesso non interviene, ma anche in Iraq, Arabia Saudita, Bahrain, Qatar. Questo lo dico per via del numero di summit e di incontri che si stanno svolgendo da giorni. C’è una paura fortissima, prima di tutto da parte della Giordania, ma anche dell’Egitto, per ovvi motivi: non vogliono passare alla storia come i Paesi che dopo il 1948 e il 1967, hanno gestito la Nakba del 2023. Né possiamo pensare di chiamare i Paesi arabi a gestire le macerie di questa guerra, come ha detto il segretario di Stato Usa Antony Blinken, con un atteggiamento coloniale che fa davvero rabbrividire.

Questo atteggiamento va a braccetto con la narrazione che arriva qui, in Italia, in Europa e in generale in Occidente, di questa guerra?
Nel mondo occidentale arriva molto poco del vero racconto della guerra, di chi sta dentro la Striscia. E questo non è responsabilità dei cronisti inviati, dei colleghi che sono sul campo, spesso mandati in posti che magari non hanno mai frequentato e che in questo momento si trovano fuori dal luogo del conflitto. Responsabilità gravissima, anzi io la considero una colpa, è di chi gestisce l’informazione, che ha lasciato un vuoto informativo che è durato almeno 15 anni ma anche 20, in cui la questione israelo-palestinse è stata considerata periferica rispetto a quello che stava accadendo intorno. Quello che noi vediamo oggi è il risultato di questi venti anni.

Come giudica l’informazione su questa guerra?
Ci sono due tipi di informazione. Quella dei giornalisti palestinesi che sono dentro Gaza, professionisti che non solo per questa guerra, ma anche per le quattro campagne militari che Israele ha scatenato su Gaza dal 2008 in poi, sono riusciti a trasmettere immagini, scrivere notizie e reportage. Giornalisti, cameramen, montatori, ingegneri del suono, ingegneri che costruiscono ponti radio, che sono stati anche uccisi, come abbiamo visto nelle ultime settimane. Professionisti che si è tentato di screditare senza conoscere la realtà, ma che sono l’unica vera fonte di informazione: Israele non permette l’ingresso nella Striscia ai giornalisti internazionali, anche prima del 7 ottobre, se non a certe condizioni.

Questa informazione arriva a noi?
Le loro cronache si vedono e si leggono sulle agenzie internazionali e sulle tv arabe, dove Al Jazeera fa la parte del leone. Immagini che arrivano al resto del mondo, che circolano in tutto il mondo arabo, ma che qui in Italia, in Europa, in Occidente vediamo molto poco.

E l’altra?
È quella che proviene dalle forze armate israeliane, dagli unici giornalisti occidentali che sono lì ma che sono “embedded”, aggregati ai militari. Ecco, questa informazione va presa per quello che è, di parte. Questo incide sulla percezione della guerra, dentro il mondo arabo ma anche fuori. In Giordania il 50 per cento della popolazione è palestinese, tutti hanno almeno un parente nella Striscia e seguono le cronache con l’apprensione di chi teme di perdere un proprio caro. A Londra la manifestazione oceanica che ha invaso le strade della città è stata animata da un certo tipo di popolazione.

Quindi qual è la narrazione predominante?
Il vero problema è la totale deumanizzazione di una delle parti in campo, quella palestinese. Poi c’è una grande confusione su Gaza, su dove si trova la Striscia, cos’è Hamas. Si è appaiato Hamas a Gaza, come se fossero la stessa cosa. Gaza è un pezzo di terra di 365 km quadrati con 2,2 milioni di persone che vivono sigillati, blindati dall’esterno, circondati da 16 anni dall’esercito israeliano, dove la gestione delle fogne è impossibile, e dove le autorità israeliane decidono quante calorie posso entrare ogni giorno. Questa è la condizione in cui si trova Gaza e in questa prigione a cielo aperto Hamas, un fenomeno politico interno alla società palestinese, con un’ala militare che negli ultimi 15-16 anni si è sempre più militarizzata, ha cambiato gli assetti. Solo se si tiene presente questo ci si può cominciare a chiedere perché il 7 ottobre c’è stato questo attacco terroristico senza precedenti, perché uno degli obiettivi dell’attacco sferrato da Mohamed Deif, il capo delle brigate Al-Qassam, era il rapimento di persone.

A Gaza si stanno compiendo crimini di guerra?
C’è la corte penale internazionale che ha già fatto sentire la sua presenza con il procuratore generale, che è stato al valico di Rafah dieci giorni dopo l’inizio dei bombardamenti a tappeto da parte di Israele. Ripeto: bombardamenti a tappeto su obiettivi civili, con la giustificazione che sotto ci sono i tunnel di Hamas o un quartier generale. Sopra però ci sono persone, che hanno il diritto di essere considerate civili e di essere salvaguardate. L’assedio durato giorni dell’ospedale Al-Shifa a Gaza si qualifica da sé: sono morti bambini prematuri, persone in dialisi, pazienti in terapia intensiva perché non c’era corrente elettrica per le apparecchiature. Stanno pagando per cosa, per gli ostaggi che non sono stati trovati?