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L’articolo 29 della Costituzione russa garantisce la libertà dei mass media e vieta la censura. Nulla di più lontano dalla realtà, per una condizione che in Russia non nasce oggi ma è stata esacerbata dall’invasione dell’Ucraina. Da una parte si silenziano testate e giornalisti non compiacenti, dall’altra un’efficace e sistematica propaganda costruisce il consenso e incita alla delazione e all’odio verso chi non ci sta.
“Vrag naroda”, “Nemico del popolo” è l’appellativo, largamente usato nel periodo staliniano per designare gli oppositori del regime, che ritorna sinistramente alla mente quando si legge la lunga lista di media della carta stampata e siti internet russi la cui attività, e perfino la stessa esistenza, è stata brutalmente messa in discussione in questi giorni, bloccandone totalmente la diffusione su tutto il territorio nazionale. Molti di essi sono infatti da lungo tempo inseriti nei registri degli “agenti stranieri” del ministero della Giustizia russo, vere “liste nere” istituite, tra il 2012 e il 2020, in seguito alla legge che nel 2012 modificò la legislazione sull’informazione.
L’inserimento in questi registri, motivato da finanziamenti di fonte estera, comporta non solo l’obbligo di rendicontare e rendere pubbliche le proprie entrate, ma anche una vera e propria “marchiatura”, verrebbe da dire, d'infamia, che deve essere obbligatoriamente citata, pena ingentissime multe, sulla testata giornalistica e/o sul sito internet interessati e persino in qualunque pubblicazione che li citi: “Questo messaggio (materiale) è stato creato e/o diffuso da un mezzo di comunicazione di massa estero con funzione di agente straniero e/o da un'entità legale russa che assolve alla funzione di agente straniero”.
Il Roskomnadzor - Servizio federale per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa - ha definito tale dicitura come necessaria per “informare il lettore russo che i materiali distribuiti da questi media perseguono gli interessi di altri stati”. L’ovvio intento censorio, mirato anche a incentivare la disaffezione e il timore di lettori e utenti, non ha però sortito del tutto l’effetto voluto: al contrario, ha spesso rafforzato la determinazione dei redattori a continuare il proprio lavoro e a ricorrere anche alla difesa legale.
L’irrompere sulla scena russa della guerra in Ucraina ha così generato un ulteriore giro di vite da parte del regime nei confronti dei “riottosi”. Già all’inizio del conflitto, il Roskomnadzor avvertiva i media di utilizzare esclusivamente fonti d'informazioni ufficiali, mentre la Duma, il parlamento di Stato, presentava un disegno di legge, riguardante la responsabilità penale per la pubblicazione di falsi in merito alle azioni dell'esercito russo, i cui emendamenti prevedono, come noto, fino a 15 anni di reclusione.
I primi importanti media che hanno continuato a esercitare i propri diritti costituzionali sono stati accusati di diffondere fake news e messi a tacere (è il caso di Echo Moskvy e Doz’d); a essi hanno in questi giorni fatto seguito, tra gli altri, Mediazona, pluripremiata testata fondata da due esponenti delle Pussy Riot, il gruppo punk anti-Putin, e “Kavkazckij Uzel” (“Nodo caucasico”), che dal 2001 ha “cercato di scrivere la verità e onestamente sugli eventi nelle regioni della Russia meridionale, del Caucaso settentrionale e meridionale”, come rivendicano i redattori dopo l’oscuramento del sito. In tutto, il 16 marzo scorso sono stati bloccati almeno 30 siti, in aggiunta alle decine precedenti, portando il totale dei siti oscurati a tale data a 499, secondo l’organizzazione RozKomSvoboda, che monitora l’attività legislativa delle agenzie governative.
La geografia e la portata di questo blocco sono piuttosto ampie: ci sono portali ucraini, bielorussi, israeliani, estoni, nonché siti delle regioni russe, c’è il sito di Amnesty International e, dal 21 marzo, quello di Euronews. L’opposizione, tuttavia, si organizza, suggerendo agli utenti dei siti di utilizzare dei Vpn od offrendo gli spazi ancora in vita ai siti colpiti dalla censura (è quanto ha fatto Novaja Gazeta). Anche il sito russo di wikipedia è stato attaccato, dopo aver rifiutato di cancellare un articolo comparso il primo giorno di guerra e visionato da cinque milioni di utenti nella sola prima settimana.
In questo caso, però, a farne le spese è stato Mark Bernstein - storico redattore, uno dei primi 50 a contribuire al sito in russo, sul quale scrive da 13 anni – il quale non solo è stato arrestato a Minsk, con la dubbia accusa di aver contravvenuto a un articolo del codice amministrativo bielorusso, ma ha anche subito la pubblicazione dei suoi dati personali su Telegram da parte di un anonimo che, invocando la nuova legge sulle fake news, si è arrogato il compito di dare un nome e cognome (“deanon”, secondo un termine slang russo) al redattore che, come lui, si era firmato con uno pseudonimo, minacciando inoltre di rendere pubblici i dati di almeno altre 1000 persone che “distorcono la realtà”. Non è certo possibile stabilire se questa sia stata una provocazione poliziesca o la volontaria delazione di un cittadino; del resto, lo stesso inserimento di una persona o di un’organizzazione nei registri degli “agenti stranieri” può avvenire a seguito di una segnalazione anonima.
Preoccupante è anche il fenomeno dei “cyber patrioti” che, secondo quanto riferisce Novaja Gazeta, è stato individuato da Mediazona nelle regioni di Mosca, Altai, Penza, Samara Belgorod e Saratov. Un gruppo che si definisce di “residenti premurosi”, ad esempio, pubblica un post con cui entra nella “lotta contro la propaganda anti-russa, contro i tentativi d'imporre opinioni disfattiste” e invita altri utenti a fornire informazioni che verranno passate alle autorità competenti. Seguono liste di “traditori”, con la probabile e neanche troppo tacita approvazione delle autorità, che in alcune situazioni si impegnano in prima persona nell’operazione. La delazione di massa, che fino a poco tempo fa non veniva necessariamente incoraggiata, è ritornata in auge con la guerra.