La proposta di pace presentata dal presidente statunitense Donald Trump per Gaza e la Palestina ha ricevuto un coro quasi unanime di approvazione, da parte dei principali capi di governo e di Stato, e dalle istituzioni mondiali. Ma qualche voce fuori dal coro c’è stata.

Numerosi analisti, funzionari e rappresentanti politici hanno evidenziato che il piano appare fortemente sbilanciato a favore di Israele, imponendo condizioni giudicate inaccettabili da Hamas e minacciando di marginalizzare le istituzioni palestinesi esistenti.

Un ultimatum

Secondo alcuni critici, il progetto di Trump rappresenta più un ultimatum che un accordo di pace. Yousef Munayyer, capo del programma Palestina-Israele presso l'Arab Center di Washington, ha dichiarato a Bloomberg: “È un tentativo di creare una copertura politica sponsorizzata dagli Stati Uniti per il proseguimento del genocidio a Gaza, in un momento in cui il mondo intero lo sta rifiutando”.

Anche all’interno della politica israeliana emergono dubbi. Moshe Saada, membro della Knesset, ha affermato all’agenzia Jewish News Syndicate che il piano impone condizioni a Hamas che “sappiamo impossibili da soddisfare, come il rilascio di tutti gli ostaggi senza ricevere nulla in cambio e il disarmo”, consentendo a Israele di avere “il via libera per continuare a distruggere Hamas, continuare a occupare Gaza City e consentire l'emigrazione volontaria da Gaza”.

Yolanda Díaz: “Nessuna garanzia”

Dal fronte europeo arrivano critiche significative. Il governo spagnolo ha formalmente accolto con favore il piano, esortando entrambe le parti a porre fine alla violenza, ma Yolanda Díaz, ministra del Lavoro e vicepremier, ha espresso un giudizio durissimo. In un video pubblicato su Bluesky ha dichiarato: “Il piano di Trump e Netanyahu per la Palestina non è un piano di pace, è un'imposizione. È un ultimatum, mascherato da accordo, che non offre alcuna garanzia e non prevede alcun calendario per la creazione di uno Stato palestinese.”

Anche la relatrice speciale Onu sui territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha condannato la proposta: “Non ci può essere nessuno Stato, né Israele, né gli Stati Uniti né l'Inghilterra per procura a decidere del futuro di quel che resta della Palestina. La situazione è ancor più abominevole, all’indomani della presentazione di un progetto che osano chiamare di pace, che prevederebbe la sostituzione dell’occupazione israeliana con quella americana, gestita da un uomo che deve ancora rispondere dei presunti crimini da lui commessi in occasione dell’invasione dell’Iraq, Tony Blair.”

Le critiche di Mustafa Barghouti: il piano è “unilaterale e pieno di mine”

Tra le voci più critiche sul fronte palestinese spicca Mustafa Barghouti, segretario generale dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, intervistato da Sky News. Barghouti ha sottolineato la unilateralità del progetto: “In particolare, il presidente americano non ha potuto evitare di mostrarsi così sbilanciato verso il punto di vista israeliano da non menzionare neppure il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese per la pace, né il fatto che occorre porre fine alla causa principale di tutto ciò che vediamo in Medio Oriente, cioè l’occupazione israeliana della terra palestinese.”

Secondo Barghouti, il piano presenta tre “mine” principali:

  1. Assenza di un piano chiaro per il ritiro israeliano da Gaza: “Si parla solo di fasi, e Netanyahu ha tenuto a precisare che il ritiro sarà lento. Questa è una ricetta per il disastro.”
  2. Rischio di nuove offensive israeliane: “Israele potrebbe riattivare la guerra anche dopo aver ricevuto i suoi prigionieri o ostaggi. Se non ci sono garanzie da parte degli Stati Uniti e di altre parti che Israele non riattiverà la guerra, si tratta di un fattore di rischio enorme.”
  3. Imposizione di un organismo esterno a Gaza: “L’imposizione di una sorta di organismo esterno per governare i palestinesi a Gaza, marginalizzando completamente le strutture già esistenti — compresa l’Autorità Palestinese — e addirittura portando Tony Blair, per l’amor di Dio. Blair è stato definito dai suoi stessi colleghi un criminale di guerra. Dunque, mantenere a lungo le truppe israeliane a Gaza e portare Blair a governarla è una ricetta per il disastro.”

Barghouti conclude: “È una ricetta per la continuazione della guerra, non per la sua fine. Ecco perché penso che ci siano molte mine da disinnescare.”

Hamas e le divisioni interne

Dopo la presentazione del piano, la palla è passata ad Hamas, che ha ricevuto un termine di 3-4 giorni per rispondere. Fonti palestinesi riportano che il gruppo sta studiando “responsabilmente” il testo, evidenziando la necessità di negoziati su punti critici come il disarmo e il rilascio degli ostaggi. Tuttavia, la posizione all’interno del movimento appare divisa. Alcuni sostengono l’approvazione incondizionata, ritenendo prioritario un cessate il fuoco garantito dagli Stati Uniti. Altri esprimono grandi riserve su clausole chiave, come il disarmo e l’espulsione di quadri da Gaza, e auspicano un accordo condizionato che tenga conto delle richieste della resistenza, evitando di legittimare l’occupazione della Striscia.

Chi ci crede?

Anche Pierre Haski, giornalista di France Inter, ha espresso un giudizio critico: “Per crederci bisognerebbe essere davvero ottimisti. Tanto per cominciare, il piano è abbastanza lontano dal testo franco-saudita adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. [...] Una frase inquietante del presidente americano, in sintonia con Benjamin Netanyahu, lascia intravedere un finale agghiacciante: se Hamas rifiuterà il piano, Trump ha promesso che Israele avrà ‘il sostegno totale degli Stati Uniti’ per proseguire la sua guerra”. Secondo Haski, le reali possibilità di attuazione del piano appaiono scarse, considerando l’assenza di consenso palestinese e il ruolo controverso di figure esterne come Donald Trump e Tony Blair.