Cade in questi giorni il decennale della più grave strage sul lavoro del Ventunesimo secolo. Il 24 aprile del 2013 morirono 1.138 persone, e più di duemila furono ferite, nel crollo del Rana Plaza, un edificio di Dacca, in Bangladesh, che ospitava cinque fabbriche tessili. Quelle operaie e quegli operai lavoravano per il sistema globale della Fast Fashion, un’interminabile lista di marchi big si riforniva alla loro tessitura, da Benetton a Zara, da Walmart a Carrefour. 

Un disastro annunciato

Fu un disastro annunciato. Solo un giorno prima erano apparse crepe strutturali nell’edificio. Le banche e i negozi dei piani inferiori avevano chiuso immediatamente. La produzione continuò invece ai piani alti. I proprietari degli sweatshops non si fermarono. Gli operai, privi di un sindacato e col rischio di perdere un mese di salario, furono costretti a presentarsi al lavoro. Alle nove meno un quarto del mattino il palazzo crollò. Ci vollero ore e giorni per trarre in salvo i sopravvissuti, schiacciati sotto tonnellate di macerie, intrappolati tra i macchinari. A molti, nell’estrazione, furono amputati gli arti.

"Hanno cercato di sollevare le lastre di cemento che erano sopra di noi. Il peso del cemento mi aveva schiacciato l'utero. Quella notte l’utero mi fu completamente asportato. Adesso ho bisogno di cure mediche, e devo assicurare un futuro a mio figlio, quindi ho bisogno di guadagnare".

Shila Begum, sopravvissuta

Le campagne, e i risultati

Una carneficina. Migliaia di lutti. Si aprì però, nell’eco dell’indignazione e attenzione mondiale, una lunga e agguerrita campagna per responsabilizzare i grandi marchi del tessile e i loro “bracci operativi” nella filiera. Grazie all’impegno di sindacati, associazioni come Abiti puliti, il Worker Rights Consortium o Remake, e la mediazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro, furono adottati programmi vincolanti sulla sicurezza e salute, e chiusi accordi per il risarcimento delle vittime e dei loro parenti. I bassi salari e la negazione delle più elementari libertà di associazione e rappresentanza sindacale restano, invece, piaghe ancora aperte.

Accordi vincolanti

Come ricorda Abiti puliti, dal 2013 “la sicurezza in Bangladesh è migliorata notevolmente, grazie all'Accordo internazionale per la salute e la sicurezza nell'industria tessile e dell'abbigliamento. L'Accordo ha di fatto trasformato l’industria tessile del Paese, mettendo finalmente in sicurezza, con interventi critici di ristrutturazione, oltre 1.600 fabbriche e 2 milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici. E ha avuto successo perché è legalmente applicabile, dà potere ai sindacati e ha al centro ispezioni indipendenti, formazione dei lavoratori e un meccanismo di reclamo”.

Nel 2013 fu anche stipulato il Rana Plaza Arrangement per il risarcimento delle famiglie delle vittime e dei lavoratori rimasti inabili. Un accordo su risarcimenti complessivi per 30 milioni di dollari. Ci vollero più di due anni per convincere i marchi più riluttanti, tra i quali Benetton, a versare un importo adeguato nel fondo di risarcimento. L'elenco completo dei donatori è disponibile sul sito web del fondo fiduciario.

La "sporca dozzina"

Una decade è un anniversario spartiacque. E aiuta a fare il punto sulle conquiste raggiunte e su quelle da raggiungere. Alla voce sicurezza, ricorda sempre Abiti puliti, bisogna tenere presente che l'attuale mandato biennale dell'Accordo internazionale scadrà nell'ottobre 2023 e “dovrà essere sostituito da un nuovo accordo con garanzie altrettanto forti”. 

“Sarà necessario il sostegno di tutti i 192 marchi che hanno firmato l'accordo e di quelli che non l'hanno firmato”, il gruppo che gli attivisti hanno ribattezzato come “sporca dozzina”: Amazon, ASDA, Columbia Sportswear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee e Rock & Republic), Levi's, Target, Tom Tailor, URBN (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart.

Restano poi aperte, e tutte da combattere, le battaglie per la giusta paga (i sindacati del Bangladesh chiedono che l’attuale salario minimo sia triplicato), per il riconoscimento della libertà di associazione dei lavoratori, e per l’istituzione in Bangladesh e a livello globale di un sistema di risarcimento in caso di infortuni che non sia vincolato a campagne ad hoc, in modo che tutti, sopravvissuti e famiglie, possano accedervi.

Il Pakistan Accord

Più recentemente, a dicembre del 2022, è stato sottoscritto il Pakistan Accord che, sul modello del Bangladesh, estende le clausole di sicurezza al settore tessile del Paese confinante. L’Accordo - ricorda Abiti puliti - è stato firmato da 45 marchi, "ma il ritmo è lento e i lavoratori ne stanno pagando le conseguenze. I marchi e i rivenditori devono accelerare le operazioni".

Lo scorso 13 aprile un incendio di vaste proporzioni in una fabbrica tessile di Karachi, in Pakistan, ha provocato il crollo dell'edificio, causando la morte di quattro vigili del fuoco e il ferimento di altri 13. "Questa fabbrica - spiegano gli attivisti di Abiti puliti – riforniva diversi marchi internazionali, dimostrando ancora una volta che i meccanismi di controllo della sicurezza dei marchi stessi sono tristemente inadeguati".

"Questo incendio deve essere un campanello d'allarme per tutte le parti interessate, compresi tutti i marchi che si riforniscono in Pakistan, i datori di lavoro pakistani, il governo pakistano e i governi dei Paesi in cui i marchi collegati hanno la loro sede – afferma Ineke Zeldenrust, coordinatrice internazionale di Abiti puliti -. Non c'è spazio per l'autocompiacimento dopo la firma dell'Accordo del Pakistan. È necessario iniziare immediatamente a lavorare per rendere sicure le fabbriche".