I marchi del Regno Unito devono ancora firmare l’accordo sulla sicurezza dei lavoratori del settore dell’abbigliamento in Bangladesh
The Guardian, 2 settembre 2021

I marchi che comprendono Primark, Next e JD Sports devono ancora firmare il nuovo accordo per la protezione dei lavoratori dell’abbigliamento in Bangladesh. 80 aziende, tra cui Mark & Spencer, John Lewis, Asos, H&M, il proprietario di Zara, Inditerx, e New Look hanno sostenuto l’accordo giuridicamente vincolante, che sostituisce quello firmato da oltre 200 aziende della moda di livello internazionale dopo il crollo della fabbrica Rana Plaza avvenuto nel 2013, che provocò la morte di 1.100 lavoratori.
Primark, che risarcì milioni di sterline alle vittime di Rana Plaza, dove uno dei suoi fornitori aveva la sede, ha detto che intende firmare l’accordo e che sta esaminando i documenti legali. Ha, poi, aggiunto: “Ci fa piacere che i negoziati per il nuovo accordo siano stati conclusi ora”.
In base all’accordo iniziale, l’accordo sulla sicurezza antincendio negli edifici in Bangladesh, i marchi e le fabbriche avrebbero fatto fronte ad azioni legali nel caso in cui i loro standard in materia di salute e sicurezza fossero stati carenti o non avessero risolto i problemi in un periodo di tempo concordato. Dal 2013 sono state realizzate più di 38.000 ispezioni e quasi 200 stabilimenti hanno perso i contratti a causa degli insufficienti standard di sicurezza.
L'accordo, che è stato concluso con due sindacati che rappresentano i lavoratori della vendita al dettaglio del settore dell'abbigliamento, rispettivamente UNI Global e IndustriALL, è scaduto martedì.
Solo nelle ultime 24 ore, alcuni marchi britannici hanno firmato il nuovo accordo, l'accordo internazionale sulla salute e la sicurezza nel settore tessile e dell'abbigliamento. Le trattative sono state lunghe con i dirigenti sindacali che hanno espresso preoccupazioni riguardo al fatto che l'elemento giuridicamente vincolante potesse essere minacciato e che i miglioramenti delle condizioni, dei salari e della sicurezza, realizzati con l’accordo del 2013, potessero essere compromessi. Alcuni marchi non hanno firmato l’accordo a causa delle richieste dei sindacati di estendere l'accordo ad altri paesi oltre il Bangladesh.
Il segretario generale di UNI Global Union, Christy Hoffman, ha dichiarato: “Oggi è stato fatto un significativo passo in avanti per i lavoratori del settore dell'abbigliamento a livello globale. Firmando l'accordo internazionale, i marchi e i rivenditori puntellano il loro impegno profuso per la sicurezza delle fabbriche in Bangladesh e concordano, inoltre, di stabilire programmi di salute e sicurezza, attuabili e trasparenti, assolutamente necessari in almeno un altro paese produttore di capi di abbigliamento.
“Ci fa piacere che così tanti rivenditori e marchi globali abbiano firmato l'accordo internazionale e che con la loro firma si assumano la responsabilità della sicurezza dei lavoratori del settore dell'abbigliamento nelle loro catene di fornitura. Confidiamo di accogliere più firmatari dell'accordo internazionale il prima possibile".
Il nuovo accordo, gestito dalla Fondazione Internazionale nei Paesi Bassi, è valido fino a ottobre 2023. Altri marchi dovrebbero firmare l’accordo nelle prossime settimane e mesi.
Le aziende che firmano l’accordo si impegnano ad estendere la salute e la sicurezza generale dei lavoratori oltre la sicurezza antincendio negli edifici, per riguardare la due diligence in materia di diritti umani nelle catene di fornitura e lo stesso impegno verso i lavoratori del settore dell'abbigliamento in almeno un altro paese. I firmatari hanno deciso di incontrarsi tra sei mesi per discutere a quali paesi estenderlo, con l'obiettivo di apportare modifiche entro due anni.
I marchi Next e JD Sports non hanno risposto alla richiesta di rilasciare un commento al momento della pubblicazione dell’articolo.

Per leggere l'articolo originale:  UK brands yet to sign accord on Bangladesh garment workers’ safety


Biden respinge le critiche e definisce il ritiro un grande successo, mentre i Talebani esultano e la sofferenza aumenta
The New York Times, 1° settembre 2021

I Talebani hanno festeggiato la vittoria completa per aver raggiunto l’obiettivo che avevano perseguito per vent’anni: l’uscita dell’ultimo soldato americano dall’Afghanistan. Da giorni, o addirittura da settimane, si sapeva che il controllo dei Talebani era reale, mentre intere città cadevano una dopo l’altra nelle mani dei combattenti e la muscolarità dell’esercito americano di una volta nel paese, si era ridotta a supervisionare un’evacuazione frettolosa dall’aeroporto di Kabul.
Ma martedì, anche l'aeroporto, palcoscenico irrinunciabile, era nelle mani dei Talebani. "Abbiamo combattuto per questo giorno negli ultimi 20 anni: porre fine a questa guerra e all'attacco degli stranieri contro di noi e creare il nostro governo islamico", ha dichiarato il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahid, sulla pista da dove è partito solo poche ore prima l'ultimo aereo degli Stati Uniti. Mujahid, affiancato da altri dirigenti talebani e combattenti dell'unità d'élite, ha guidato i giornalisti in un tour dell'aeroporto abbandonato, che fino al giorno prima era stato diviso in un lato per i civili e l’altro per i militari usato dalle forze della coalizione occidentale. I detriti raccontano la storia di un'altra superpotenza le cui ambizioni sono state deluse in Afghanistan. Valigie e vestiti sparsi nel terminal dei voli nazionali ormai vuoto a veicoli militari, SUV corazzati e persino elicotteri, che i funzionari statunitensi dicono di averli disabilitati in modo definitivo. Più in generale, i danni considerevoli fatti all'aeroporto hanno portato a domandarsi quando la struttura potrà essere utilizzata in sicurezza per i voli. Praticamente tutto all'interno del terminal è stato saccheggiato o distrutto, fino ai nastri trasportatori. Le piste, i corridoi per i passeggeri e i camion per il carburante erano tutti fuori uso. Non è stato il ritiro limitato dal paese che alcuni funzionari statunitensi avevano previsto. Per la prima volta in vent’anni, non sono rimasti scarponi del governo americano sul terreno in Afghanistan. Negli ultimi giorni, non si parlava più di un contingente militare che rimanesse a sorvegliare l'ambasciata americana e il corpo diplomatico. L'ambasciata è stata chiusa, e il segretario di Stato Antony J. Blinken ha detto questa settimana di far fronte a un torrente di critiche per la gestione del ritiro avanzate dai Democratici e dai Repubblicani, e da alcune famiglie dei soldati in servizio uccisi a Kabul la scorsa settimana.
Martedì, il presidente Biden si è rifiutato di fare nel suo discorso ogni tipo di mea culpa, anche quando i Talebani celebravano la loro "indipendenza" dall'America con spari nelle strade di Kabul. Il presidente ha, invece, cercato di giustificare la sua gestione delle ultime settimane di guerra, dicendo che l'esercito degli Stati Uniti e i suoi diplomatici hanno meritato credibilità e ringraziamento per aver traghettato più di 120.000 americani e alleati afgani di fronte alla presa del potere dei Talebani e alle minacce terroristiche dell'ISIS-K, organizzazione affiliata allo Stato Islamico. Biden ha espresso profondo rammarico per la perdita di vite umane nelle esplosioni all'aeroporto di giovedì scorso, tra cui decine di afghani, ma ha respinto la tesi che la sua amministrazione avrebbe dovuto, o potuto, gestire il ritiro finale in un "modo più ordinato", evacuando prima le persone, prima che la presa del potere dei Talebani nel paese fosse completata. "Sono rispettosamente in disaccordo", ha detto Biden, battendo a un certo punto il dito sul leggio manifestando un senso di giusta indignazione sul secondo rimprovero mosso dai critici a Capitol Hill e ad altri funzionari al di fuori dell'amministrazione. Al centro della tesi di Biden c'è la scommessa che la maggioranza degli americani dice di sostenere la fine della guerra, e che gli storici giudicheranno la decisione di ritirare le truppe come l'unica possibile di fronte alla situazione sul terreno che ha trovato quando è entrato in carica all'inizio dell'anno. Il ritiro dall'Afghanistan era una promessa posta al centro della sua campagna elettorale, e i funzionari della Casa Bianca credono che la maggioranza degli elettori premierà il presidente per aver realizzato quanto ha detto che avrebbe fatto. Biden si è definito un leader che ha preso l'unico corso possibile in un groviglio di scelte sbagliate, dando la colpa all'esercito afgano e al suo predecessore, Donald J. Trump, che ha concluso lo scorso anno un accordo con i Talebani che ha impegnato gli Stati Uniti a ritirarsi completamente entro lo scorso maggio. Gli Stati Uniti non avevano "alcun interesse vitale in Afghanistan se non quello di prevenire un attacco alla madrepatria" e che la guerra sarebbe dovuta finire dieci anni prima. "La vera scelta era tra andarsene o aggravare la situazione", ha affermato Biden, con una voce che spesso si alzava come se fosse un grido interno. "Non avevo intenzione di prolungare questa guerra per sempre". Nel presentare questa tesi, Biden ha lasciato intravedere una politica estera americana diversa nel mondo post-11 settembre, dicendo che eviterà guerre via terra con grandi dispiegamenti di truppe, favorendo, invece, una strategia guidata più dalla competizione economica e dalla cybersicurezza con la Cina e la Russia, focalizzata sul contrastare le minacce con la tecnologia militare che consente di colpire i terroristi senza la presenza di grandi contingenti di truppe in un luogo come l'Afghanistan. Biden l'ha definita una "nuova era" per il potere americano, in cui gli Stati Uniti non cercheranno più di rimodellare i loro rivali nel modo come hanno cercato di fare in Afghanistan e in Iraq i presidenti precedenti. "Il mondo sta cambiando" e la dirigenza americana deve cambiare.
"Mentre voltiamo la pagina della politica estera che ha guidato la nostra nazione negli ultimi vent’anni, dobbiamo imparare dagli errori che abbiamo commesso”. Ha suggerito due lezioni: organizzare missioni con "chiari obiettivi raggiungibili" e rimanere concentrati sui fondamentali interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ma né il presidente e né i suoi collaboratori hanno ammesso di aver commesso errori nel modo in cui hanno portato a termine la guerra, a parte il fatto di aver riposto la loro fiducia in un esercito afgano che si è rivelato non essere un "forte avversario" per i Talebani. Biden ha, invece, contestato apertamente l'idea che gli Stati Uniti avrebbero potuto gestire un ritiro più ordinato, o iniziare le evacuazioni prima.
"Immaginate, se avessimo iniziato le evacuazioni a giugno o a luglio, portando via migliaia di soldati americani ed evacuando più di 120.000 persone nel mezzo di una guerra civile, ci sarebbe stata ancora una corsa all'aeroporto, un crollo della fiducia nel controllo del governo, e sarebbe stata ancora una missione molto difficile e pericolosa", ha detto Biden che ha ammesso che, dopo il ritiro degli ultimi soldati, sono rimasti "circa 100-200" americani che vogliono uscire dall'Afghanistan. Ma ha detto che gli Stati Uniti continueranno a impegnarsi con sforzi diplomatici per aiutarli a partire nei prossimi giorni. "La linea di fondo", ha insistito, "è che non c'è evacuazione che si possa eseguire alla fine di una guerra senza le complessità, le sfide e le minacce che abbiamo affrontato. Non esiste". Nel discorso pronunciato, il   presidente americano ha detto che il suo nuovo approccio con il mondo non porterà al tipo di isolazionismo dell’America First di Trump. "Continueremo a difendere i diritti fondamentali del popolo afgano, in particolare le donne e le ragazze, come difendiamo le donne e le ragazze in tutto il mondo”. Ha sminuito il caos che si sarebbe creato con l'uscita degli Stati Uniti dall'Afghanistan, presentando dichiarazioni che, secondo i critici, distorcono la verità.
Ha, inoltre, detto che i funzionari avevano sempre dato per scontato che le forze di sicurezza nazionali afgane sarebbero state un avversario solido dei talebani. In realtà, le numerose valutazioni dell’intelligence all'interno del governo, così come quelle degli esperti esterni, da anni dicevano che le forze afgane si stavano dimostrando deboli e inefficaci. Biden si è anche vantato del fatto che l’amministrazione ha contattato "19 volte" gli americani che vivono in Afghanistan per dare loro "numerosi avvertimenti" a lasciare il paese con l'avvicinarsi dei talebani. Ma non ha accennato alle numerose volte in cui l’amministrazione ha rifiutato i consigli dei gruppi per i diritti umani, dei deputati e di altri che chiedevano di iniziare le evacuazioni prima. Il presidente ha definito l’uscita completa dall'Afghanistan come una necessità morale, sottolineando che non intendeva sacrificare la vita di altri soldati in servizio per una guerra che da tempo si è allontanata dallo scopo originale. Ma il costo di questa necessità morale è stato alto, anche alla fine, con la perdita di 13 soldati in servizio mentre gli Stati Uniti si affrettavano ad evacuare americani e alleati. Biden ha detto che la nazione ha un debito di gratitudine nei confronti dei soldati morti nella missione di evacuazione. "Tredici eroi hanno dato la loro vita". "Dobbiamo a loro e alle loro famiglie un debito di gratitudine che non potremo mai ripagare, ma che non dovremmo mai, mai, mai dimenticare". L'uscita precipitosa delle truppe dall'Afghanistan, e il caos e la violenza intorno all'aeroporto, hanno distolto, per più di due settimane, la Casa Bianca dall'agenda interna del presidente. Il discorso pronunciato da Biden avviene mentre i funzionari della Casa Bianca sperano di chiudere un episodio difficile della sua presidenza e di spostare l'attenzione sulle crisi interne in corso, tra queste l'ondata della variante Delta e le conseguenze del passaggio distruttivo dell'uragano Ida lungo la costa. L'addetta stampa della Casa Bianca, Jen Psaki, martedì ha riferito ai giornalisti che Biden si rivolgerà presto al Congresso perché approvi le disposizioni cruciali della sua agenda economica di miliardi di dollari, che comprendono le spese ingenti per le infrastrutture e i servizi sociali, oltre ad affrontare direttamente la pandemia e le preoccupazioni dei genitori dei bambini che torneranno a scuola. "Ci sono una serie di questioni che desidera presto comunicare", ha detto, infine, Psaki.

Per leggere l'articolo originale:  Spurning critics, Biden calls exit notable success as the Taliban Exult, Suffering Mounts
 

Ad attendere i rifugiati afghani frontiere chiuse e accoglienze ostili
Inter Press Service, 30 agosto 2021

Farhana Haque Rahman è un ex alto funzionario dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura e del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo. Giornalista ed esperta di comunicazione, è direttore esecutivo e vicepresidente senior di Inter Press Service. Decine di migliaia di afghani stanno ancora una volta fuggendo dal loro paese cercando disperatamente un posto sugli ultimi voli di evacuazione da Kabul e incamminandosi verso gli stati vicini del Pakistan e dell’Iran.
Gli eventi si stanno svolgendo velocemente. I Talebani stanno per creare un governo centrale nella capitale per riempire il vuoto lasciato dal crollo dell’amministrazione sostenuta dall’occidente, ma non controllano l’intero paese mentre la lunga guerra civile entra in una nuova fase. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, afferma che si sta preparando a far fronte al peggiore scenario con 500.000 nuovi rifugiati nella regione entro la fine di quest’anno. È una stima, che come molte altre del passato, potrebbe rivelarsi ottimista.
Ancora prima del rapido avanzamento dei Talebani di questo agosto, il conflitto ha provocato 390.000 sfollati all’interno dell’Afghanistan, e circa 14 milioni di afghani affrontano scarsità di cibo ed una siccità continua in tutto il paese.
Dall’invasione sovietica avvenuta alla fine del 1979, l’Afghanistan ha visto ondate di milioni di rifugiati lasciare il paese, che hanno creato diaspore vicine e lontane. Molti afghani hanno fatto ritorno nel paese in periodi di relativa calma.
Ma quest’ultimo esodo affronta un mondo più ostile. In generale, la marea di opinione pubblica, spesso spinta dal “nazionalismo respingente”, si è rivolta contro i rifugiati. Solo da poco tempo alcuni paesi occidentali hanno deportato i rifugiati afghani. La costruzione di nuove barriere, che siano recinzioni o muri, stanno diventando la regola internazionale. Le quote di rifugiati da accogliere sono state ridotte nettamente.
La Turchia, che già ospita 3.7 milioni di rifugiati registrati, ha avvertito l’Europa che non diventerà nuovamente il suo “deposito di rifugiati” dopo l’accordo negoziato nel 2016 per accogliere i rifugiati siriani in cambio di aiuti. Il Pakistan e l’Iran, che già ospitano circa cinque milioni di afghani tra registrati e non registrati, non sono disposti ad accoglierne ancora. La Gran Bretagna, con i suoi legami storici, sta aprendo le porte a soli 20.000 afghani nei prossimi cinque anni. Il presidente Joe Biden ha autorizzato la spesa di 500 milioni di dollari per i rifugiati, ma non è chiaro quanti rifugiati potranno trovare rifugio negli stessi Stati Uniti. Ottawa si è impegnata a reinsediare 20.000 afghani rifugiati minacciati dalla presa del potere in Afghanistan dei Talebani. Il ministro per l’Immigrazione, Marco Mendicino, ha affermato: “Dare rifugio ai più vulnerabili al mondo spiega chi sono i canadesi, soprattutto in tempo di crisi”.
Il numero dei rifugiati nel mondo continua ad aumentare ed ha raggiunto il livello più alto dalla Seconda Guerra mondiale. Il database di statistiche sulla popolazione dei rifugiati dell’UNHCR mostra che alla fine di giugno nel mondo c’erano 82.4 milioni di sfollati forzati, di cui 35 milioni bambini di età inferiore ai 18 anni. Quasi il 70% del totale provengono da cinque paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar.
Ciononostante, sono le immagini e le storie personali ad avere un impatto grande più delle semplici statistiche. L’immagine della Siria, forse la più devastante, e di vasta portata in termini politici, è stata quella di Alan Kurdi, bambino di tre anni annegato, che giaceva senza vita su una spiaggia turca, mentre la sua famiglia cercava di raggiungere l’Europa. Le immagini di afghani ammassati in un aereo militare americano hanno descritto il caos a Kabul, subito seguito dalla carneficina provocata da un attentato suicida.
Ma le storie che trasmettono speranza dicono anche all’opinione pubblica e ai donatori che è possibile fare qualcosa per aiutare, anche con somme di danaro relativamente piccole.
Naturalmente chi è stato sfollato a causa del conflitto ha la sua storia, anche se si deve dire che alcuni preferiscono non raccontare la loro storia per motivi che richiedono rispetto. Intendo condividere brevemente la mia storia.
Ho conosciuto l’Afghanistan per la prima volta quando, da bambina negli anni ’60, in quello che era allora il Pakistan orientale, lessi a Bangla, il breve racconto di Rabindranath Tagore “Kabuliwalah”.  Raccontava la storia di un uomo gentile e compassionevole, che lasciava periodicamente la famiglia per andare a vendere merce che trasportava in un grande sacco e faceva prestiti ai bengalesi. Questo racconto suscitò una profonda impressione, così come il senso dell’umorismo dell’uomo e del suo attaccamento ad una bambina, di nome Mini, che rappresentava chiaramente i suoi figli lasciati a Kabul.  All’inizio del racconto, l’uomo era una persona piuttosto spaventosa, prendeva dei dolcetti dal sacco per darli alla bambina, ma lentamente si guadagnò la fiducia e il rispetto della bambina e del padre.
Il mio rapporto con l’Afghanistan è stato più diretto, pieno di pericoli. Mentre studiavo in un college britannico a Lahore, in Pakistan, il mio paese natale, il Bangladesh, divenne indipendente. Fuggii da quello che allora era il Pakistan occidentale, evitando i campi e il rimpatrio, per raggiungere il paese di nuova indipendenza, dirigendomi verso una strada pericolosa percorsa da carrozze trainate da cavalli “tanga”, camion e autobus, attraversai un terreno inospitale, la montagna, attraversai Quetta e il valico di frontiera di Chaman per entrare in Afghanistan. Lungo il percorso, nella terra di nessuno, contrabbandieri armati estorcevano molto danaro dal nostro gruppo formato da 40 persone, alcune di loro erano famiglie con bambini, e una notte scalammo la montagna, sfiniti fino al punto di avere allucinazioni. Temendo la morte, ma abbastanza inconsapevole del pericolo di stupro, vestita con un burqa bianco lungo l’intero viaggio pericoloso, controllando il movimento di coloro che erano temporaneamente i miei angeli custodi, arrivai all’ambasciata indiana a Kabul dopo aver trascorso giorni in una fattoria fatiscente a Kandahar, e con i documenti indiani, fummo portati in aereo a Nuova Delhi, poi a Calcutta in treno, per arrivare poi a Dhakka, dopo 23 giorni angoscianti. Sono stato fortunata. Il nuovo paese si stava riprendendo da una guerra costata milioni di vite umane. Quasi 50 anni dopo, le cose spesso non sono andate così.
“La resilienza del popolo afgano è stata portata ad un punto limite dal conflitto prolungato, dai livelli alti di sfollamento, dall'impatto del COVID-19, dai disastri naturali ricorrenti, tra cui la siccità, e dalla povertà crescente", ha detto il portavoce dell'UNHCR Babar Baloch in un briefing a Ginevra del 13 luglio.
Con l'intensificarsi del conflitto afgano all'inizio di quest'anno, numerosi rifugiati hanno intrapreso lunghi e pericolosi viaggi attraverso il Pakistan, l'Iran e la Turchia verso l'Europa, spesso pagando bande di contrabbandieri sfruttatori e trafficanti di persone. La Turchia, dove le autorità stimano che ci siano già 300.000 rifugiati afgani tra registrati e no, sta rafforzando le barriere di muri e recinzioni di confine. Lo stesso sta facendo la Grecia, che si considera paese europeo in "prima linea".
Reece Jones, professore di geografia politica, ha realizzato ricerche su come i paesi negli ultimi decenni siano diventati interconnessi attraverso complesse reti di trasporto e comunicazione, ma lo scopo dei confini è cambiato per diventare il luogo dove si controlla il movimento delle persone. "La sicurezza dei confini e la costruzione di barriere sono aumentati drammaticamente nel mondo globalizzato apparentemente senza confini".
A mano a mano che aumentavano muri e recinzioni, aumentavano anche le morti dei migranti. Secondo il Missing Migrants Project dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, sono morti, nell'ultimo anno, più di 2000 migranti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l'Europa. I paesi che negli ultimi anni hanno annunciato la costruzione di nuove barriere lungo il confine comprendono l’Austria, la Bulgaria, l’Estonia, l’Ungheria, il Kenya, l’Arabia Saudita, la Tunisia e il "bel muro" dell'ex presidente Donald Trump sul confine USA-Messico. La Lituania è stato l'ultimo paese, dove il parlamento ha votato ad agosto la costruzione di una recinzione metallica ricoperta da filo spinato per tenere lontani i migranti, molti provenienti dall'Iraq, che attraversano il territorio lituano dalla Bielorussia.
Il Prof. Jones afferma che i confini dell'Unione europea sono "di gran lunga i più letali" con circa due terzi delle morti di migranti che si verificano sui confini o lungo la strada per l’Unione europea. L'alto tasso di mortalità è la conseguenza di un confine estremamente pericoloso nel Mar Mediterraneo accompagnato da un’applicazione più intensa delle regole, che spinge le persone a utilizzare i contrabbandieri e a correre più rischi, come si è potuto vedere con la tragica morte di 39 vietnamiti asfissiati in un rimorchio frigo nei pressi di un porto del Regno Unito nel 2019.
I muri in passato non hanno funzionato, si limitano a deviare ma non a prevenire i flussi di migranti, ma sono simboli potentemente efficaci utilizzati dai politici per dimostrare che stanno affrontando le minacce economiche, culturali e di sicurezza percepite dai migranti.
Secondo Daniel Trilling, autore di Lights in the Distance: exile and refuge at the borders of Europe, l'Unione europea forse ha il sistema più complesso al mondo per scoraggiare i migranti indesiderati, spendendo miliardi di dollari in sistemi di sorveglianza e pattugliamenti via terra e via mare.
In realtà l'Unione europea cerca di impedire persino ai veri richiedenti asilo di raggiungere il suo territorio, ad esempio tagliando gli aiuti previsti negli accordi con la Turchia. La crisi dei rifugiati siriani del 2015, quando un milione di migranti e rifugiati attraversarono l'Europa, ha scatenato controversie accese sulla condivisione collettiva del peso che rimane irrisolta.
Mentre le ultime truppe statunitensi e di altri paesi stranieri stanno lasciando Kabul in aereo questa settimana, ponendo fine a una campagna militare durata vent’anni, le agenzie delle Nazioni Unite rimangono. Il Programma Alimentare Mondiale è "impegnato a rimanere e a fornire assistenza finché le condizioni lo permetteranno" e ha bisogno di 200 milioni di dollari per arrivare alla fine dell'anno. Nei primi sei mesi di quest'anno, il Programma Alimentare Mondiale ha fornito assistenza alimentare e nutrizionale a 5.5 milioni di persone, tra cui i nuovi sfollati costretti dai combattimenti.
L'UNHCR sta mantenendo il personale in Afghanistan e per il momento è in grado di raggiungere tutte le province e continua a lavorare con 18 organizzazioni locali non governative. "Invitiamo i donatori a continuare a sostenere con fermezza le operazioni umanitarie in Afghanistan e stiamo anche lanciando un appello", ha affermato l'agenzia, osservando che l'appello supplementare dell'UNHCR per la situazione in Afghanistan è stato “drasticamente sottofinanziato del 43%".
Le frontiere di tutto il mondo sono state sigillate per evitare migranti e rifugiati, ma la comunità internazionale non può andarsene dall'Afghanistan e chiudere gli occhi.

Per leggere l'articolo originale: Closed Borders and Hostile Receptions Await Afghan Refugees
 

Per i lavoratori con retribuzione bassa, la Brexit sa facendo ciò che ci si aspettava dovesse fare
The Guardian, 30 agosto 2021

Per coloro che fanno parte della forza lavoro precaria in Gran Bretagna la Brexit non è imperfetta, è quasi il contrario. Il numero di posti di lavoro vacanti ha raggiunto per la prima volta il milione. Le aziende continuano a chiedere personale. Le lobby industriali chiedono al governo di allentare la pressione per rilasciare più visti ai lavoratori dell’Unione europea. Vale la pena dedicare qualche secondo ponendoci una domanda semplice: che cosa c’è di sbagliato se la carenza di manodopera sta facendo aumentare i salari dei lavoratori con salario basso?
Ci sono stati anni peggiori del 2010 per i lavoratori percettori di salari, dovremmo tornare al 19° secolo per trovare anni simili. Ci sono voluti 12 anni perché i percettori di reddito medio superassero il livello che avevano prima della crisi finanziaria del 2008, una tendenza sfavorevole che portò a criticare in modo del tutto appropriato non solo il modello economico del Regno Unito, ma la disuguaglianza crescente.
Se questo modo di operare, il cui rovescio della medaglia dell’eccessivo affidamento al lavoro non qualificato e a basso costo ha significato un continuo sotto investimento, sta venendo meno, allora questo è uno sviluppo positivo e non un male. C’è qualcosa di veramente sbagliato se in un sistema economico in cui più della metà della popolazione che vive al di sotto della linea ufficiale della povertà appartiene alle famiglie lavoratrici che non guadagnano abbastanza per tirare avanti e spendono una grande fetta del bilancio nazionale del welfare.
I datori di lavoro dispongono di una serie limitata di scelte se si trovano a corto di personale e non possono chiedere rinforzi dall’estero. Possono investire di più in attrezzature destinate a ridurre la manodopera; possono investire più in formazione per aumentare i livelli di competenze, oppure possono pagare di più per attrarre personale. Non ci è chiaro il motivo per cui nessuna di queste scelte debba essere impossibile o indesiderabile.
Ovviamente, le aziende non possono risolvere nell’immediato i problemi di carenza di manodopera accelerando la formazione e acquistando nuove attrezzature. Le due scelte richiedono tempo per organizzare e avere un eventuale impatto reale. Questo comporta la scelta di pagare salari più alti, il che spiegherebbe perché Tesco sta offrendo un bonus di 1.000 sterline per i nuovi autisti di camion.
I datori di lavoro hanno sollevato dubbi rispetto al fatto che una paga più alta possa risolvere le carenze di manodopera, nonostante le leggi fondamentali dell’economia suggeriscano di sì se gli incentivi sono abbastanza alti. Al momento è l’unica vera carta di cui dispongono le aziende perché è improbabile che possano vedere soddisfatte le loro richieste di allentamento delle regole sulla migrazione.
Ci sono alcune ragioni che lo spiegano. La prima è che non esiste alcuna garanzia che l’allentamento dei controlli possa funzionare. Come ha sottolineato Samuel Tombs, il consulente economico per la società Pantheon Macro, ci sono cittadini dell’Unione europea rientrati lo scorso anno nei loro paesi durante la pandemia che potrebbero ritornare in Gran Bretagna se decidessero di farlo. “Sul piano giuridico, la maggior parte di queste persone possono fare ritorno se lo desiderano. In realtà, le richieste presentate per ottenere uno status giuridico predefinito o definito hanno superato il numero ufficiale dei cittadini dell’Unione europea in Gran Bretagna alla fine del 2019”.” Ciononostante, le attuali mancanze di manodopera nei settori che fanno affidamento sul lavoro dei migranti indicano che l’entusiasmo a ritornare è basso”. Ovviamente, potrebbe cambiare se i cittadini dell’Unione europea pensassero di essere sicuri di tornare e se i posti di lavoro offerti fossero ben remunerati.
La seconda ragione è che il governo non vuole affrontare le carenze di manodopera con la migrazione. Si potrebbe pensare che i ministri responsabili dell’economia, il cancelliere Rishi Sunak e il segretario agli affari, Kwasi kwarteng, siano propensi a risolvere le carenze di manodopera in questo modo, ma non è così. Entrambi credono che ci siano cittadini britannici che possono essere formati per colmare il numero vasto di posti di lavoro vacanti.
La terza ragione è politica. Il governo cerca di rafforzare il proprio sostegno tra i lavoratori con retribuzione bassa, i sostenitori tradizionali del Partito Laburista, che hanno sostenuto la Brexit e votato per i conservatori alle elezioni del 2019. I ministri ritengono che questa fetta di forza lavoro sia abbastanza soddisfatta dello stato attuale in cui, per la prima volta da anni, esiste la possibilità di strappare al datore di lavoro un aumento decente del salario.
Gli accademici hanno lavorato molto sull’impatto della migrazione sui salari nel Regno Unito. È stato dimostrato che quando i lavoratori stranieri integrano i lavoratori nazionali, loro stimolano l’aumento dei salari. Questo tende ad avvantaggiare coloro che sono ai livelli più alti del reddito.
La storia è diversa dall’altra parte del mercato del lavoro, perché i salari sono bassi quando i lavoratori migranti competono con i lavoratori nazionali. La concorrenza tende ad essere maggiore nei lavori con retribuzione bassa, come i lavori del settore della ristorazione e dell’assistenza sociale.
La storia non finisce proprio così, perché aumentando l’offerta di lavoratori stranieri significa anche aumentare la domanda. I nuovi lavoratori sono anche dei consumatori e spendono il danaro che guadagnano come gli altri lavoratori. La domanda aggiuntiva crea più posti di lavoro, soprattutto nei settori con retribuzione bassa.
È sorprendente che la Brexit abbia diviso in questo contesto la nazione nel modo in cui lo ha fatto. Se avessi avuto un posto di lavoro pagato bene e non ti saresti trovato nella situazione di essere sostituito con una retribuzione ridotta da un lavoratore straniero, è sicuro che avresti votato per restare nell’Unione europea. Che cosa non piaceva se l’idraulico polacco era più economico, la tata lituana era più istruita?
D’altro canto, se facevi parte della forza lavoro precaria della Gran Bretagna, che aveva bisogno di fare due o più lavori part time per tirare avanti, avresti votato molto probabilmente per uscire dall’Unione europea, dal momento che controlli più rigidi sulla migrazione avrebbero condotto ad un mercato del lavoro più rigido, che a sua volta avrebbe aumentato i salari.
Per coloro che non temono nulla dalla frontiere aperte, la carenza di manodopera è la prova che la Brexit è imperfetta. Per coloro che non sono così fortunati, la Brexit sta facendo ciò che ci si aspettava dovesse fare.

Per leggere l'articolo originale:  For low-paid workers, Brexit is doing what it was supposed to do

Il Campionato mondiale di calcio non ha indagato in modo adeguato sulle cause delle morti. È quanto affermano le organizzazioni per i diritti umani che esprimono preoccupazioni per lo stress da calore e per la sicurezza. Secondo un nuovo rapporto di Amnesty International, il campionato di calcio in Qatar non è riuscito a svolgere le indagini sulla morte di migliaia di migranti degli ultimi dieci anni.
L’organizzazione per i diritti umani ha dichiarato che la morte della maggioranza dei lavoratori migranti in Qatar è stata attribuita a “cause naturali”, a cause legati all’insufficienza cardiaca o all’insufficienza respiratoria, classificazioni, che secondo un esperto, sono “prive di significato” perché non spiegano la causa del decesso.
Di conseguenza, il 70% dei decessi resta privo di spiegazione. Secondo il rapporto, “Un sistema sanitario dotato di risorse, dovrebbe avere la possibilità di individuare la causa esatta del decesso, ad eccezione dell’1% dei casi”.
I dati giungono mentre il Qatar e la Fifa fanno fronte ad una pressione in aumento dei calciatori e delle associazioni nazionali di calcio volta a proteggere i diritti dei lavoratori, a quasi un anno dall’inizio dei Mondiali di Calcio.
Il comitato organizzatore del Mondiali di Calcio in Qatar ha segnalato la morte di 38 lavoratori impegnati nei progetti di costruzione, 35 decessi sono stati classificati come “non legati al lavoro”. Tuttavia, Amnesty ritiene che circa la metà di queste morti non abbia ricevuto un’indagine adeguata che spiegasse le cause dei decessi.
L’associazione per i diritti umani ritiene che l’esposizione al caldo intenso e umido sia probabilmente un fattore significativo e ha esortato le autorità del Qatar ad attivare una protezione migliore die lavoratori. Steve Cockburn, responsabile per la giustizia economica e sociale, ha dichiarato: “Quando uomini relativamente giovani e sani muoiono improvvisamente dopo aver lavorato lunghe ore in condizioni di caldo estremo, ci induce a porci domande sulla sicurezza delle condizioni di lavoro in Qatar”.
“Non avendo indagato sulle cause dei decessi dei lavoratori migranti, le autorità qatariote stanno ignorando i segnali di allarme che potrebbero, se affrontati, salvare vite umane. Questa è una violazione del diritto alla vita”.
Il modo in cui il Qatar tratta la forza lavoro migranti, composta da 2 milioni di persone, è stato sottoposto a un controllo costante da quando, nel 2010, gli fu riconosciuto il diritto di ospitare i Mondiali di Calcio. A febbraio, il Guardian ha svelato che negli ultimi dieci anni oltre 6.500 lavoratori migranti dell’Asia meridionale sono morti in Qatar.
Le autorità qatariote hanno sostenuto che il tasso di mortalità dei migranti rientra nella norma, considerata la dimensione numerica della forza lavoro, ma gli esperti epidemiologici citati nel rapporto di Amnesty contestano “la capacità delle autorità nel sostenere le loro affermazioni…a causa della qualità bassa dei dati disponibili”. Inoltre, gli esperti epidemiologici dicono che i lavoratori migranti, che si sottopongono a test sanitari prima di partire per il Qatar, sono generalmente giovani, sani e “nel fiore degli anni”.
A maggio, le autorità qatariote hanno adottato una serie di misure per proteggere i lavoratori dal caldo, tra cui l’estensione di un mese dell’orario estivo, che vieta ai lavoratori di lavorare all’aperto durante le ore più calde della giornata. Amnesty ha accolto con favore le misure adottate, affermando che non sono andate abbastanza lontane nella protezione dei lavoratori.
Il rapporto descrive l’impatto devastante delle morti sulle loro famiglie. Secondo la legge qatariota, le famiglie ricevono i risarcimenti quando i decessi sono “causati dal lavoro”, ma il fatto che non siano state svolte indagini adeguate significa che non è possibile individuare le cause legate al lavoro, il che permette ai datori di lavoro di evitare di pagare i risarcimenti.
Bipana, la moglie di Tul Bahadur Gharti, lavoratore nepalese di 34 anni, morto lo scorso anno, ha detto: “Non ho ricevuto alcun risarcimento dal Qatar. Il padrone del campo di lavoro ha detto che l’azienda non ha regole sul risarcimento per coloro che muoiono di infarto o per coloro che non sono di turno”.
È difficile restare da soli. Sento che la mia vita è stata rovinata…Mio marito è stato dato alle fiamme, io mi sento bruciare nell’olio”.
Il governo qatariota ha risposto al rapporto di Amnesty mettendo in luce l’impegno compiuto con le riforme del lavoro, tra cui l’introduzione di un nuovo salario minimo e il ritiro degli ostacoli che impedivano di cambiare lavoro. Ha sostenuto di aver realizzato progressi importanti nel contrastare le conseguenze dello stress da calore e ha affermato che i dati relativi agli incidenti e alla mortalità sono in linea con le pratiche migliori adottate a livello internazionale, e di aver fissato degli standard per la regione del Golfo.
Un portavoce del governo ha detto: “Il Qatar ribadisce fermamente il suo impegno verso la riforma del lavoro e non sarà costretto a cambiare strada da nessuna organizzazione che cercherà di infamare i progressi realizzati”.

Per leggere l'articolo originale: Qatar has failed to explain up to 70% of migrant worker deaths in past 10 years – Amnesty