“La produzione di cibo e l’agricoltura sono parte del problema, sono tra i responsabili della crisi ambientale, dell’aumento delle emissioni, della perdita di fertilità dei suoli. È da lì che si deve partire”. Il punto di vista della segretaria generale della Fondazione Slow Food, Serena Milano, è nitido: analizza i dati, trae le conclusioni e indica la strada. “Bisogna cambiare radicalmente il rapporto che l’uomo ha con la terra e che sta portando al collasso – aggiunge -. Non lo sostengono soltanto la società civile e le associazioni ambientaliste. Lo dicono l’Onu e la Fao. E il tempo a nostra disposizione è pochissimo, al massimo dieci anni”.

Serena Milano, perché non c’è più tempo?

Negli ultimi 70 anni abbiamo distrutto tre quarti della biodiversità domestica che i contadini avevano selezionato in 10mila anni di storia dell’agricoltura. Il 75 per cento degli ortaggi, delle razze animali, dei cereali, è andato perso a livello globale, negli Usa siamo al 95 per cento. Sono numeri impressionanti. Questo vuol dire che la nostra alimentazione si basa su pochi semi ibridi commercializzati da multinazionali, le stesse che vendono anche i pesticidi e che promuovono un’agricoltura basata su monocolture, chimica di sintesi, grandi quantità di acqua. Basta un parassita, un fungo per mettere in ginocchio intere filiere produttive. Il problema quindi è anche di carattere economico: si disperdono risorse rinnovabili, i terreni si impoveriscono e perdono fertilità, la resilienza diminuisce e così diventiamo più vulnerabili. 

Gli allevamenti intensivi e il consumo di carne sono sul banco degli imputati quando si affronta il problema dei cambiamenti climatici. Perché?

Nel 1950 la quantità la carne consumata in tutto il mondo si attestava intorno a 45 milioni di tonnellate. Nel 2018 è arrivata a quota 300 milioni, secondo previsioni della Fao al 2050 arriveremo a 500 milioni. Il dato sta crescendo in modo esponenziale, in Usa, Europa, Cina e India. È simbolo di benessere, l’aumento si accompagna allo sviluppo economico. A grandi quantità di carne corrispondono una qualità molto bassa e un impatto ambientale molto alto. Il settore zootecnico rappresenta il 14,5 per cento delle emissioni totali di gas serra. Senza contare che un terzo dei terreni agricoli nel mondo è utilizzato per coltivare materie prime per i mangimi animali, terre di Paesi poveri destinate a produrre materie prime, soprattutto Ogm, che poi vengono imbarcate e spedite altrove per gli allevamenti intensivi. E questo è profondamente sbagliato sul fronte della giustizia sociale, del benessere animale, dell’ambiente e della salute dell’uomo. Basti pensare alla deforestazione dell’Amazzonia per fare posto alle coltivazioni di soia e mais.

Su questo fronte qual è la soluzione secondo lei?

Bisogna mangiare meno carne ma di qualità, proveniente da allevamenti sostenibili, legati alla terra. Si produce troppo anche perché si consuma troppo. Quando diciamo che bisogna cambiare modello di sviluppo e di consumo intendiamo proprio questo. Purtroppo però anche l’ultima Pac, la Politica agricola comunitaria, continua a sovvenzionare le grandi superfici e il modello intensivo. Tutto questo mette a rischio i piccoli allevatori, che con la loro attività presidiano le montagne, curano i pascoli, evitano gli incendi, insomma tutelano l’ambiente.

Oggi si parla e si discute di transizione ecologica. Ma che cosa vuol dire in concreto?

Significa che se non si cambia paradigma, se non si modificano i comportamenti non ci sarà salvezza per il genere umano, destinato al declino nelle prossime generazioni e poi all’estinzione. Ha senso che ci sia una transizione, ma non si deve limitare a un’etichetta, deve concretizzarsi in un cambio vero. Non dimentichiamo che il cibo è la chiave più potente per trasformare la società. Ci conduce all’acqua, al suolo, al terreno. È un fatto sociale che riguarda tutte le dimensioni, attraverso di esso ci occupiamo di tutti i problemi ambientali. È lì che il Ministero dovrà partire.