Giuseppe Berta, Detroit. Viaggio nella città degli estremi, Bologna, il Mulino, 2019, pp. 235.

Chi volesse farsi una rapida ma non per questo superficiale idea della parabola della grande industria automobilistica americana, dagli anni gloriosi di inizio Novecento al deprimente declino di fine secolo, potrebbe utilmente leggere questo bellissimo, piccolo saggio, scritto da uno dei nostri migliori storici economici.

Giuseppe Berta (studi importanti sulla Olivetti, sulla Fiat e lo sviluppo italiano, sull’Italia delle fabbriche, sino al fondamentale Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, edito dal Mulino nel 2016) ritorna a Detroit nel 2018, esattamente trent’anni dopo la sua ultima visita nell’antica capitale dell’automobile. E trova, al posto della città pulsante che ricordava, percorsa ancora dal febbrile ritmo della grande produzione industriale di matrice fordista, un deserto di impianti arrugginiti e di magniloquenti edifici abbandonati, nel quale vive (vive?) una comunità in prevalenza nera, ben differente da quella middle class generata dal lavoro operaio, a suo tempo caratteristica della grande città-fabbrica americana. Il pellegrinaggio – raccontato in una prosa efficacissima come fosse il diario di viaggio di un turista alla ricerca del suo tempo perduto – si svolge sul filo della memoria ma ha uno scopo preciso: mira a capire l’attuale realtà dell’America, a studiare Detroit e “le radici profonde del Midwest” nella grande crisi che ha mutato radicalmente il modo di produrre, spostando la ricchezza dall’Est all’Ovest. Ha per oggetto la Rust Belt, “cioè la plaga della ruggine che con la sua geografia irregolare indica la mappa della deindustrializzazione”. Vuole raccontare il vistoso calo demografico (dai quasi 2 milioni di abitanti ai meno di 700 mila attuali, con larghissima prevalenza di afro-americani poveri) e la “spirale letale” della disoccupazione e del razzismo.

Il viaggio comincia con la domanda di un portiere d’albergo curioso: “Why Detroit?”, chiede sorridente al cliente italiano appena arrivato da un aeroporto al di là dell’oceano. Perché cioè, tra le tante méte dell’America turistica oggi á la page, Berta ha scelto proprio la capitale della Rust Belt?

L’autore non ci dice se, preso alla sprovvista, abbia trovato la battuta giusta per rispondere alla domanda (certo un po’ impertinente). Ma una risposta lui ce l’aveva e costituiva il motivo stesso del viaggio: “comprendere cosa ha lasciato dietro di sé la grande ondata dell’industrializzazione di massa quando si è ritirata”; e capire se da lì, da quel ritiro delle acque e da quella distesa di detriti, non sia venuta almeno in parte la vittoria recente della destra di Donald Trump, che proprio in questi territori ha fatto incetta di voti. Studiare l’America del Midwest (quella stessa messa qualche mese dopo a ferro e fuoco dalla rivolta nera contro l’omicidio brutale di George Floyd).

La prima méta del viaggio è un luogo celebre: l’Institute of Arts, a Midtown, cioè uno dei principali musei d’arte degli Stati Uniti, creato negli anni d’oro del fordismo (dal 1924 al 1945) grazie a uno straordinario direttore e “imprenditore culturale” di origine tedesca, William Valentiner. Sulle cui mura esterne dominano i grandi murales da realismo socialista del pittore comunista messicano Diego Rivera, marito della giovanissima e ancora poco famosa Frida Khalo. E qui ecco entrare in scena il vero deus ex machina della Detroit novecentesca (e anche il memorabile ritratto che occupa la prima parte del libro di Berta), figura emblematica e al tempo stesso incombente in tutto il viaggio: il mitico Henry Ford senior, il fondatore nel 1902 della grande fabbrica. Che quegli affreschi “rivoluzionari” volle e difese, persino stringendo un rapporto sorprendente di simpatia con l’autore. Sorprendente, sì, perché il fondatore della Ford era il prototipo in chiave moderna del dispotico padrone delle ferriere dell’Ottocento, tanto razzista per di più da far pubblicare in inglese i Protocolli dei Savi di Sion e persino da accettare d’essere insignito di decorazione nazista da Hitler. E naturalmente ferocemente antisindacale, come diremo; e nemico giurato del comunismo.

Ma quegli operai di Rivera, tesi nello sforzo muscolare estremo di movimentare la catena di montaggio, e quelle macchine imponenti sovrane nello spazio come sculture dell’antico Egitto dovettero sembrargli una sorta di pittura sacra, una simbologia ideale da inserire nella cattedrale dell’industrialismo moderno: la grande fabbrica fordista, appunto, il tempio della produzione in serie. C’era un’“hybris” in quell’ideale (così la chiama Berta, e ha ragione): c’era dietro l’idea che nelle mani dell’uomo (l’homo faber dell’era di ferro del capitalismo ruggente) vi fosse la possibilità di costruire a sua immagine e somiglianza una civiltà nuova (“un potere inusitato”, commenta Berta). Un “hybris” che neanche la tremenda crisi post-1929 avrebbe scoraggiato, che si sarebbe perpetuata nel secondo dopoguerra per almeno quattro decenni. Un’ideologia, anche se non espressa in manifesti e testi teorici: l’ideologia della produzione all’infinito, intimamente connessa con quella del consumismo dio del mercato.

È lo stesso passato immanente che Berta ritrova nella seconda tappa del viaggio, l’Highland Park e il Ford Museum: nel primo edificio, caratterizzato da un’architettura modernissima, si producevano le celebri “Model T”, “archetipo dell’auto moderna costruita in grande serie”. Fu precisamente qui che nel 1910 “i principi della produzione di massa si tradussero in realtà”, dando vita all’utilitaria alla portata di tutti gli americani. Una specie di Lingotto alla rovescia (c’è anche, evocata nel libro, la visita che il senatore Agnelli fece a Ford per carpirgli il segreto; e qualche anno dopo quella di un giovane Adriano Olivetti, spedito a Detroit dal padre Camillo allo stesso scopo). Alla rovescia del Lingotto, perché, esattamente al contrario dello stabilimento torinese, la produzione qui iniziava nei piani superiori e i “pezzi” via via si assemblavano discendendo in quelli inferiori. Era, quando fu costruito e inaugurato, l’impianto produttivo più grandioso d’America, 42 mila operai nel 1924, un milione di auto all’anno. Un discusso scrittore francese, Louis-Ferdinand Céline, ne avrebbe lasciato una descrizione al negativo (i lavoratori ridotti a scimpanzè, avrebbe scritto), ma Berta vi coglie invece quasi con malcelata ammirazione tutti gli elementi affascinanti del fordismo trionfante: non solo la catena di montaggio, il taglio dei tempi, le stazioni di controllo; ma anche le mense, gli spacci, il tempo libero organizzato, i trasporti. L’organizzazione spinta sin dentro l’esistenza delle persone, l’uomo-fabbrica insomma. E su tutto la più ferrea disciplina militare.

Scrive Berta: “ovunque nel museo domina il senso della potenza dell’industria: si tratti di automobili, aerei, locomotive che assomigliano a giganteschi monumenti di metallo, per movimentare centinaia di vagoni da un capo all’altro dell’America, attraverso pianure e catene montuose, per migliaia di chilometri”. Era “l’anima dell’acciaio del ‘secolo americano’”.

Il braccio destro dell’industriale (ed ecco un altro personaggio-chiave del libro) fu Harry Bennett, un oscuro figuro di dubbia reputazione e dedito alla violenza, che ebbe tuttavia carta bianca dal padrone per organizzare il “lavoro sporco”: tenere l’ordine in fabbrica, gestire la forza lavoro, contrastare i sindacati; e che adempì all’incarico con squadracce di picchiatori e l’esercizio spregiudicato dello spionaggio più odioso nei reparti (lo si vedrà all’opera nel grande sciopero del 1937, represso con l’uso della forza più brutale).

River Rouge è la tappa successiva: ancora un altro stabilimento-modello, eretto come una cattedrale alla fine degli anni Venti a Dearborn, Michigan: 100 mila addetti. Completata nel 1928, fu la più grande fabbrica del mondo. Fu qui che, il 27 maggio 1937, le squadre armate di Bennett spezzarono le reni ai sindacati. Erano i tempi del New Deal, ma nulla poteva, neanche Roosevelt, contro la dittatura instaurata in fabbrica da Ford (e da Bennett). Anche se, ci spiega Berta, da quella sconfitta sanguinosa (un vero e proprio massacro di operai e dirigenti sindacali, chiusi a tenaglia su un ponte e maciullati dagli armati del padrone) nacque la riscossa che portò, nel 1941, a firmare un accordo contrattuale avanzatissimo, modello per tutte le fabbriche degli Stati Uniti. Ford era un reazionario ma realista: sapeva adeguarsi. Stava nascendo negli Stati Uniti, pur con tutte le sue contraddizioni, il nuovo potere dei sindacati.

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Brush Park, infine: “una zona di frontiera”, il “laboratorio del cambiamento urbano”. Qui nel luglio 1967 si scatenò la grande rivolta urbana culminata in 43 morti. Detroit fu posta sotto assedio, l’esercito schierato in piazza sparò per le strade. Fu un segnale definitivo. Da allora in poi, gradatamente, i bianchi lasciarono la città per trasferirsi nei confortevoli sobborghi, al riparo dallo scontro di classe: il centro urbano fu abbandonato e nacque una Detroit “in cui prevaleva il colore nero”. Fu qui, in queste strade, che Martin Luther King pronunciò le sue fatidiche parole: “I have a dream”. Qui si radicò il movimento di Malcom X e nacque il Black Power.

Il viaggio si conclude al Renaissance Center, “le sette torri scintillanti …, la più alta delle quali ospita il quartier generale della General Motors”. C’era tuttavia ancora il marchio dei Ford, in quel quartiere fine anni Settanta, e specialmente quello dell’erede del fondatore, il nipote Henry Ford II: e qui Berta scrive pagine molto belle sulla saga della grande famiglia, nella quale al vecchio pioniere reazionario succedono figli e nipoti più tolleranti, capaci di interpretare il mondo che cambia e di rinverdire il sogno americano. Ma l’universo dell’auto era intanto cambiato radicalmente. Imboccava inesorabilmente il suo viale del tramonto. In poche incisive pagine Berta ce ne descrive l’epilogo ma, anche, ce ne fa intravedere il futuro. L’agenda del viaggiatore è qui fitta di nomi e di fatti: una radiografia esemplare delle contraddizioni della Detroit di oggi e dell’intera regione, con la politica attuale e i suoi leader, i persistenti conflitti tra comunità nera e potere bianco. Sullo sfondo, come una colonna sonora, sembra di udire le note della musica nera degli anni venti, del blues e poi del jazz degli anni cinquanta, o quelle della Detroit Techno degli anni ottanta, coi loro musei e le loro sale di incisione.

Berta rientra in Italia col taccuino fitto di note. Ma nell’aprile 2019 decide di ritornare negli Stati Uniti, sia pure più brevemente. Gli resta ancora qualche cosa da vedere. O forse sa che nel frattempo qualcosa, nel deserto di ruggine che ha attraversato, sta tuttavia repentinamente cambiando, con la velocità istantanea con la quale questi processi avvengono in America. Per esempio la Michigan Center Station, dove questa volta arriva, è in pieno restauro. I nuovi investimenti della Ford stanno producendo in zona un risanamento urbano sorprendente. Ripulite le strade, resi sicuri i quartieri che appena un anno prima il passante temeva ad attraversare, ripristinate certe strade, rimesso a nuovo “il cuore storico della città, col grande monumento ai soldati di qui che combatterono nella Guerra civile”. Lo colpisce l’animazione delle vie: autobus e tram si succedono frequenti anche a Brush Park, costeggiando le vecchie case vittoriane che sono in via di restauro. Detroit, coi suoi poco più di 600 mila abitanti (certo meno della metà di quanti ne aveva negli anni cinquanta) è pur sempre il diciottesimo polo urbano degli Stati Uniti. Nel 2013 l’amministrazione ha subito la bancarotta più grave della storia americana, ma ciononostante qualcosa, nel ventre dei suoi quartieri, sembra sia in movimento. Il vecchio cuore urbano di Detroit non ha cessato di battere.

Questo secondo viaggio si chiude dunque con una nota di speranza: “dovessi formulare anch’io una previsione – scrive Berta – , azzarderei che Detroit non soltanto sopravvivrà alla conversione dell’industria dell’auto alla nuova mobilità, ma ne sarà, almeno in parte, artefice”. E subito dopo: “farei torto a me stesso se omettessi di concludere che Detroit, fucina permanente di situazioni estreme, è una specie di teatro in cui si rappresentano senza mediazioni o aggiustamenti, le dinamiche di trasformazione cui va soggetto l’Occidente".