Con il Consiglio Europeo di ieri il quadro dell’economia italiana si complica, se possibile, ancora di più. Nella discussione sugli strumenti per sostenere le politiche anti-crisi, il Consiglio, infatti, ha ignorato ogni idea di monetizzazione dei deficit (non se n’è nemmeno discusso) e ha respinto la proposta di Eurobond avanzata dall’Italia (Angela Merkel ha sottolineato che è uno strumento contrario ai trattati) per orientarsi a favore del Recovery Fund. Sulla natura di questo fondo non vi è nulla di certo: non si sa il “come”, cioè in che modo saranno raccolti i fondi, con che tipologia di titoli di debito, se solo con il ricorso al mercato o anche con l’intervento della Bce e, soprattutto, in che modo saranno erogati gli importi, se con una modalità che inciderà o meno sul debito pubblico dei singoli Paesi; non si sa il “quanto”, ovvero quale sarà la “potenza di fuoco” di questo fondo e se i Paesi dovranno, per ottenere quei fondi, gravarsi di nuove spese per alimentare il bilancio dell’Unione; non si sa il “quando”, e cioè se quei fondi potranno essere disponibili immediatamente o solo nel 2021, come fa temere la proposta di legare il fondo al bilancio dell’Unione, quando la crisi avrà distrutto una grande quota di capacità produttiva del nostro Paese. Ne sapremo qualcosa di più tra due settimane, quando la Commissione Europea dovrebbe avere impostato una proposta minimamente definita.

Purtroppo, a oggi, le uniche certezze che abbiamo sono tutte negative. Sappiamo, infatti, che la crisi determinerà un crollo del Pil italiano non inferiore agli 8 punti percentuali nel 2020, con un vistosa riduzione dell’occupazione e un salto del debito pubblico verso il 160% del Prodotto interno lordo. E sappiamo anche che gli unici strumenti certi messi in campo con certezza dall’Europa – il Sure, per finanziare gli ammortizzatori sociali; la Bei per i crediti alle imprese; il Fondo Salva-Stati (il Mes) per il finanziamento delle spese sanitarie – sono ben poca cosa rispetto alla gravità della situazione e alle condizioni della finanza pubblica italiana. Soprattutto, sono ben fondate tutte le perplessità sul Mes, che tra questi dovrebbe essere lo strumento principale. L’aspetto “positivo” è che grazie al Mes dovremmo potere accedere a circa 36 miliardi di risorse.

Si tratta però di un credito che andrebbe a gravare sul nostro debito pubblico e il vantaggio sugli interessi rispetto ai titolo di nostra emissione diretta, ai tassi attuali, è stato stimato in appena 200 milioni di euro per un finanziamento decennale. Un’inezia. Ebbene, per avere questo risicatissimo vantaggio di interessi l’Italia si sottoporrebbe non solo a un “rischio stigma” dei mercati (il ricorso al Salva-Stati è visto infatti come uno strumento di ultima emergenza) ma soprattutto a condizionalità. Infatti, al di là del chiacchiericcio politico sull’assenza di condizioni, se è vero, come afferma Merkel, che i Trattati non si cambiano, allora resta la prescrizione del Two Pack (Regolamento 472/2013, art. 2 comma 3) secondo cui “se uno Stato membro beneficia di assistenza finanziaria dal MES la Commissione sottopone a sorveglianza rafforzata detto Stato membro”.

Insomma, l’unica certezza è una crisi devastante e per ora l’unico appiglio che abbiamo, in assenza di qualunque limitazione ai movimenti di capitale, è la Bce che sta arginando gli assalti della speculazione, comprando i titoli del nostro debito pubblico sul mercato secondario. Se non ci sarà un intervento veloce dell’Unione Europea e in forma diversa da quella di crediti da contabilizzare nel debito italiano, la condizione della nostra finanza pubblica diverrà insostenibile. E se la Bce staccasse la spina alle politiche di controllo sugli spread saremmo in area default.