Alle sollecitazioni intellettuali ed economiche del documento, tutte comunque degne di attenzione, vorrei aggiungere alcune considerazioni, che – a mio avviso – stanno tutte nella sua logica essenziale, ma che meritano, quanto meno, una sottolineatura. Innanzitutto il tema della povertà: la percezione politica della povertà in Italia, ma non solo, è spesso divisa tra il sentimento di solidarietà e il dato statistico, affidato ai narratori, piuttosto che agli analisti economici e politici. Anche l’Italia corre, infatti,  il serio rischio di non riuscire a risollevarsi e  assiste quasi inerte alla crescita della povertà fra le  fasce sociali medio-piccole che vanno sempre più ad implementare la zona buia dell’indigenza. È di tutta evidenza, andando in giro per le città, ma anche guardandosi intorno e sbirciando le abitudini di molti vicini di casa, di lavoro o di quotidianità, accorgersi che alcune abitudini sono state modificate, o cancellate del tutto, all’insegna di una contrazione della possibilità di spesa dei nuclei familiari.

Eppure negli anni passati qualcosa si era mossa: le Fondazioni di origine bancarie, insieme al governo, avviarono, qualche anno fa, un grande e utilissimo programma per contrastare la povertà infantile, causa di crescente ignoranza e ulteriore disagio sociale. Le Fondazione mettevano risorse fresche e liquide, soprattutto senza condizioni, a favore dell’istruzione e della sostenibilità di vita dei giovani poveri, mentre lo Stato concedeva alle Fondazione un adeguato corrispettivo in credito d’imposta.  Non so, in verità, quanto tutto ciò abbia effettivamente e seriamente contrastato la povertà infantile, certamente è stato un esempio di buone pratiche di governo in un Paese a forte disagio sociale. Esperienza esemplare, ma isolata o quasi. Ignorare sistemicamente o affrontare sporadicamente la questione della povertà infantile e non solo, non è di sicuro indice di “capacità progettuale”.

In secondo luogo la mancanza di creatività. Non c’è dubbio alcuno che le tecnologie, micro e macro,  le infrastrutture, grandi e piccole, l’alfabetizzazione informatica, l’accorciamento delle filiere della comunicazione digitale, rappresentano oggi la massa critica che, analogamente nel dopoguerra,  rappresentarono, nella ripresa manifatturiera dell’Italia, l’investimento e il trasferimento delle conoscenze tecniche ed economiche;  ma non c’è neppure dubbio che la creatività – ieri, come oggi – rappresenta il volano soggettivo e collettivo di una produzione sempre più banalizzata da una universalizzazione tanto dei mercati, quanto dei consumatori, la cui unidimensionalità marcusiana è oggi diventata più invasiva e oppressiva di quanto non lo fosse all’epoca del famigerato ‘68 la denuncia politica e morale della Scuola di Francoforte e dei suoi attenti e severi Maestri. Il “genio italiano” non è una categoria artistica o letteraria, ma è la traduzione immateriale, ovvero il plusvalore, di un patrimonio di conoscenze e culture che l’italianità rappresenta nel mondo, oltre la sua Bellezza, che di tutto ciò rimane, comunque, l’icona e la cifra.

In terzo luogo la sostenibilità dei processi e dei percorsi formativi. Non mi riferisco qui solo alle alte sfere della formazione superiore, che – come tutte le altre – hanno necessità di una riforma strutturale dei saperi, rispondente ai nuovi orizzonti della ricerca delle principali realtà avanzate del mondo, ma anche ad una alfabetizzazione diffusa, nella quale e per la quale l’Italia spende risorse ingenti in modo o standardizzato o casuale: in entrambi i casi spesso inutilmente. In Italia si distribuiscono titoli aventi valore legale, ma sempre molto di meno competenze e competitività.  Ci si attarda nelle aule scolastiche e/o universitarie senza relazionare il tempo dell’apprendimento con lo spazio nel quale dovrà essere impegnato e sviluppato. I nostri diplomati arrivano troppo tardi, rispetto ai loro coetani di altri Paesi d’Europa e del mondo, nel sistema dell’alta formazione e i nostri laureati, di seguito, entrano nel sistema produttivo già invecchiati e spesso “bruciati” sul filo di lana di una concorrenza internazionale forse neanche più preparata, ma di certo più allenata a…correre.

In quarto luogo il tema dei diritti: sembra un tema banale e ridondante, ma la recente sentenza della Suprema Corte degli Stati Uniti, che riafferma quello che a noi può sembrare un elementare diritto dell’uomo, dimostra che è un tema ancora centrale in tutto il mondo. In America, nell’America di Trump, fa notizia che i diritti dei gay e dei trans vengano affermati oggi in pieno Terzo Millennio, ma in verità, in verità fa notizia un po’in tutto il mondo, anche in Italia. In Italia dove ancora molti diritti, anche fondamentali, anche fra i più elementari debbono ancora essere difesi con forza e costituiscono molto spesso una méta e non un baluardo. Un mondo che deve ancora inseguire il riconoscimento di diritti negati, misconosciuti o occultati è un mondo che non riesce, per converso, neppure a declinare i propri doveri, sia individuali che sociali, e che non sa cosa differenzi il progetto dal programma e l’utopia dalla realtà. Aiutare a colmare questo gap è non solo un obiettivo primario dell’individuo, ma un tema scottante e centrale della socialità realizzata come punto di equilibrio tra diritti e doveri. Vorrebbe dire che la “capacità progettuale” è quasi a portata di mano.

Infine il neo, che non rappresenta – come vuole la leggenda – la bellezza del volto dell’Italia, ma il cancro letale: la corruzione, che fa il paio con una amministrazione della giustizia tanto vecchia e obsoleta, quanto lenta e ormai, spesso, o demotivata o disistimata. Non servono leggi su leggi, codici sui codici, autorità su autorità, pandette su pandette: se la corruzione – o per converso la moralità – di un Paese si misurassero a quantità delle norme e sulla “paura”  che incutono la legge e le sue sanzioni, in Italia – un po’ come in tanti, troppi Paesi del mondo – le carceri dovrebbero essere vuote. Invece sono sempre piene, più piene che mai e la corruzione dilaga fuori – e da recente abbiamo visto anche dentro – delle carceri. Certezza del diritto, rapidità dell’amministrazione della giustizia, garanzia dell’esecuzione della pena sono diventati assolutamente irrinunciabili per un Paese post Covid-19.

Cosa chiede in fondo l’Europa per sostenere l’Italia, con o senza Covid-19? Solo questo. E questo e solo questo basterebbe per rendere la “capacità progettuale” non un sogno, ma un programma di governo, di legislatura, anzi - direi - di Sistema Paese. Le risorse finanziarie dello Stato possono dare ossigeno alla quotidianità del singolo soggetto, individuo o gruppo industriale che sia, ma non potranno mai sostituirsi alla cultura della crescita e del cambiamento, ma neppure creare ricchezza stabile e sostenibile, che solo il complesso reticolo di  formazione, creatività, diritti e legalità potrà generare e supportare.

Giovanni Puglisi è Rettore dell'Università degli Studi Kore di Enna e presidente dello Iulm di Milano