Più volte è stato esaminato quanto ha inciso sull’aumento inflattivo la crescita dei beni energetici che, nonostante gli ultimi cali, continua a influire ancora pesantemente. Via via molti altri beni di consumo, a partire dagli alimentari, sono a loro volta fortemente aumentati, in modo tale da compensare anche parte del calo dei beni energetici.

Ci sono stati motivi drammatici, come la guerra, che hanno determinato questa situazione. Permangono elementi speculativi che andrebbero combattuti, pesano fortemente i tanti nostri ritardi strutturali, a partire dal peso preponderante dell’importazione per gran parte delle materie energetiche. Le imprese ormai, molto più che nei primi mesi del 2022, scaricano la maggior quota di questi aumenti sui listini e sui prezzi dei prodotti.

Ma, a differenza di altre epoche, e attualmente, di altri Paesi europei, la nostra inflazione non è legata alla crescita dei salari, che anzi restano tra i più bassi fra i maggiori Paesi d’Europa, con un potere d’acquisto che continua a scendere. In questa situazione, ripetere stancamente che non deve essere innescata una rincorsa prezzi-salari è sbagliato e non serve.

Bisogna dire quali sono gli elementi che si mettono in campo sul versante dell’intervento pubblico, a partire dal fisco e dal mercato del lavoro, e quali sul versante delle imprese: i salari lordi e netti devono aumentare, la precarietà e il lavoro povero diminuire, gli orari essere rivisti.

Il lavoro non può essere l’unica categoria sociale così smaccatamente scoperta dagli aumenti inflattivi; altrimenti è inevitabile che cresca la povertà e la conflittualità salariale aumenti. Le scelte di autodifesa via via messe in campo dalle famiglie sono arrivate al capolinea o non più percorribili: cambio della qualità dei consumi, scelta dei punti vendita con prezzi inferiori (aumentano di oltre il 10% i discount), utilizzo delle promozioni, grande attenzione a evitare sprechi, utilizzo di quota di risparmio familiare accumulate negli anni.

In questa situazione, molte famiglie possono permettersi poco altro che gli acquisti essenziali e a volte neppure quelli. Ne risentono interi comparti produttivi e persino le spese per la salute. Attualmente siamo già nella fase di un consistente calo della quantità degli acquisti che non può durare. Il dato è oscurato dall’aumento delle vendite in valore, ma è drogato dall’andamento dei prezzi. Le vendite in valore crescono a causa dell’inflazione, ma le quantità dei consumi calano.

È sempre un problema quando si manifesta, ma se il calo maggiore riguarda i consumi alimentari (a novembre -6,3% su base annua) e i prodotti di più largo consumo, è chiaro che il livello di guardia è stato raggiunto. Come è noto, l’inflazione è una tassa diseguale e per le famiglie più povere l’incremento percentuale di spesa è ben più alto della media.

Istat: i numeri

Il dato Istat sui prezzi al consumo di dicembre evidenzia in modo molto chiaro questa dinamica. Dividendo le famiglie, sulla base di un criterio di spesa equivalente, in cinque diverse fasce di spesa per consumi, si può verificare quanto sia diverso il peso dell’inflazione a scapito delle famiglie meno abbienti.

L’attuale aumento dei prezzi è particolarmente legato all’andamento dei costi dei prodotti di maggiore uso che rappresentano la quantità nettamente prevalente di acquisti delle famiglie meno abbienti rispetto al reddito disponibile. Ovviamente, anche per chi ha maggiore disponibilità, l’inflazione per acquisto di beni cresce ma, rispetto alla quantità totale, pesa proporzionalmente meno perché è maggiore nel paniere dei loro acquisti il peso dei servizi che hanno un andamento inflattivo più contenuto.

I dati medi Istat per il 2022 rilevano una quota d'incidenza dell’inflazione del 12,1% (era del 2,4% nel 2021) per il primo quintile di famiglie; ben +4,9 punti delle famiglie nella fascia più alta (7,2%). Ma se questo è il dato medio del 2022, il fenomeno è cresciuto via via proporzionalmente in corso d’anno e nel solo quarto trimestre la quota d'incidenza dell’inflazione si attestava al +18,4% nel primo gruppo di famiglie, contro il 9,9% del quinto gruppo (+8,5%).

Questo accentuarsi delle differenze fra più e meno abbienti è un fenomeno particolarmente italiano, legato alla più bassa dinamica dei nostri redditi e ai diversi meccanismi adottati nei Paesi verso le politiche di sostegno alle famiglie. Risulta così evidente e urgente la necessità d'interventi come il recupero del fiscal drag, l’indicizzazione delle detrazioni, la defiscalizzazione delle fasce di reddito più basse. Tutti strumenti utili a riequilibrare questa ulteriore inaccettabile differenziazione tra cittadini.

Già nel 1944, a proposito dell’aumento inflattivo, Giuseppe Di Vittorio affermava: “Si vorrà riconoscere che fin quando le autorità competenti non riusciranno a impedire con i fatti e non solo con le parole l’aumento del costo della vita, ai lavoratori (…) non rimane che esigere adeguati aumenti dei salari”.

Fulvio Fammoni è il presidente della Fondazione Di Vittorio