Le ripercussioni della pandemia sull’andamento della demografia in Italia sono state molto gravi. Il totale della popolazione residente al 31 dicembre 2021 è di 58 milioni e 983mila. Si scende sotto la soglia dei 59 milioni di residenti, un dato inferiore di circa -616 mila nei due anni di pandemia trascorsi, e questo risultato non tiene ancora conto del drammatico protrarsi degli effetti pandemici anche nel 2022.

La crisi demografica già precedentemente in atto era prevalentemente legata a fattori come: saldo naturale negativo, andamento delle migrazioni. L’effetto virus ha funzionato da moltiplicatore. Il picco di popolazione residente che aveva raggiunto - nel 2014 - oltre 60 milioni, è calato in soli 7 anni di oltre un milione di persone fino alla quota attuale. Si tratta di una diminuzione impressionante che crea il paradosso di un Paese che continua ad invecchiare mentre cala l’aspettativa di vita.

Ovviamente, nell’esaminare gli scenari demografici, il primo dato di fondo è quello della natalità. Più volte si è parlato del rischio di scendere sotto il numero di 4 milioni di nuovi nati annui, nel 2021 è purtroppo effettivamente accaduto. In 13 anni si è passati dal picco di 577mila nati al dato attuale con un calo di oltre il 30%. L’accelerazione di questa caduta, in epoca Covid va però analizzata con un approccio in parte diverso da quello tradizionale. È infatti legata, come negli anni precedenti, al processo di invecchiamento della popolazione in età feconda ma, dal 2020, anche a una forte contrazione di fiducia nel futuro. La natalità segna sempre picchi particolarmente negativi in occasione dei periodi di crisi, come riscontrabile ad esempio nella crisi del 2008 e adesso verificabile nelle varie fasi della pandemia: il calo delle nascite si accentua nei mesi di maggiore intensità dei contagi mentre ha dimensioni più contenute quando i contagi calano.

L’altro elemento fondamentale è ovviamente legato all’aumento dei decessi attribuibili in via diretta al Covid-19 e per una quota indirettamente legati ad altre patologie che, in emergenza, non è stato possibile trattare nei tempi e nei modi richiesti. Dati drammatici che, oltre a incidere pesantemente sul numero totale dei cittadini, modificano un assunto da anni ormai dato per scontato: la crescita dell’aspettativa di vita che invece cala di oltre un anno, tornando a un valore analogo a quello del 2012. Un terzo fattore riguarda le migrazioni, ed è l’unico scostamento positivo del 2021, ma non per tutti: sicuramente non per le destre come il dibattito politico dimostra.

Nel 2021 l’andamento delle iscrizioni anagrafiche è superiore, se pure di poco, a quello delle cancellazioni, ma resta decisamente più basso della media degli anni fra il 2015 e il 2019. L’insieme dei fattori fin qui richiamati, concorre a un saldo che vede, negli ultimi trent’anni, circa 1,5 milioni di residenti in età lavorativa in meno e un aumento importante degli over 65, con gli effetti che questa dinamica comporta: al calo della popolazione corrispondono meno consumi, meno Pil e la diminuzione della popolazione in età da lavoro; l’invecchiamento demografico porterà a un aumento e a una diversificazione della domanda sul fronte sanitario e assistenziale.

Che futuro si prospetta per un Paese in cui contemporaneamente cala il numero dei residenti, l’occupazione non cresce e la base produttiva è a dir bene stagnante? Questi dati ci introducono a una lettura comparata con quelli relativi al lavoro e all’economia. Tutte le diseguaglianze con la pandemia si sono accentuate e molti dei progressi degli ultimi anni sono arretrati, ma nelle statistiche attuali sono ancora scarsamente conteggiati i drammatici effetti della guerra. Gli indicatori registrano un aumento della povertà. Sempre Istat dà una lettura molto interessante sul rapporto fra povertà e inflazione; a febbraio 2022 per l’ottavo mese consecutivo (ben prima quindi dello scoppio della guerra in Ucraina) l’inflazione aumenta raggiungendo una percentuale del +5,7% che non si verificava dal 1995. Sono particolarmente i beni energetici a spingere in alto questa crescita, ma gli aumenti inflattivi si estendono in modo particolare ai prodotti alimentari, arrivando a far crescere oltre il 4% i prezzi del cosiddetto carrello della spesa.

Aumentano i prezzi, anche dei prodotti per la cura della casa e della persona, portando l’aumento dei beni di acquisto ad alta frequenza, quelli che incidono maggiormente sulle famiglie più povere, al +5,3%. Dati già gravi e che preannunciano un ulteriore problema economico e sociale. Solo pochi giorni prima infatti, sempre l’Istituto di statistica, affrontando i temi della povertà, aveva evidenziato come nell’anno della crescita del Pil oltre il +6% le famiglie e il numero delle persone in povertà assoluta non era calato rispetto all’anno precedente; un risultato in gran parte determinato dall’inflazione.

Lo scorso anno la crescita dei prezzi era stata del +1,9%, quasi due terzi in meno dei dati di questi primi due mesi del 2022, ma già sufficiente per evitare una diminuzione della povertà, che senza questo aumento inflattivo sarebbe calata del -0,7% sul 2020. Nel 2022 la crescita del Pil sarà decisamente più bassa e i dati sull’inflazione ancora più elevati di quanto sarà la durata della guerra e un’eventuale ripresa dei contagi a definirlo. I dati indicano con chiarezza come l’occupazione (buona occupazione e salari adeguati) sarebbero il principale antidoto al peggiorare delle cose. Nel 2021 infatti l’incidenza della povertà assoluta è stabile tra le famiglie con una persona di riferimento occupata, mentre aumenta negli altri casi perché l’inflazione colpisce maggiormente i nuclei familiari meno abbienti. Dopo molti anni di inflazione prossima allo zero forse ce n’eravamo dimenticati, ma i dati sulla crescita dei prezzi al consumo sono espliciti: la percentuale inflattiva è più alta per i meno abbienti la cui variazione di spesa in termini reali nel 2021 risulta negativa a differenza di quella delle famiglie più ricche.

Parliamo dunque in primo luogo di occupazione; con grande fatica siamo tornati al numero di occupati del 2019, ma la nuova occupazione è prevalentemente precaria, e i livelli salariali, già molto bassi e stagnanti negli anni passati, sono adesso aggrediti dall’inflazione. Nel concreto, qual è l’obiettivo di occupazione necessaria per dare risposte significative ai fenomeni richiamati? Non certo il ritorno ai numeri del 2019; anche allora, come oggi, il tasso di occupazione italiano era di circa il 9% più basso della media europea. L’obiettivo minimo, da correlare alla mole straordinaria di investimenti prevista dal Pnrr, è di recuperare almeno il 50% di questo distacco da qui al 2026.

Questo significa aumentare in percentuale di 4,5 punti il nostro attuale tasso e in numeri assoluti aumentare gli occupati di oltre 1,5 milioni di persone. Così come, la differenza tra i salari medi italiani e quelli delle principali nazioni europee, non può rimanere così ampia. In particolare per quanto riguarda i salari più bassi che rappresentano gran parte questa differenza. Entrambe queste leve vanno agite contemporaneamente e consistentemente; il permanere dello stato attuale o solo qualche lieve miglioramento non comporterebbe infatti - conseguenze significative per le persone le cui condizioni resterebbero molto difficili, facendo aumentare l’area della povertà assoluta e la quota di lavoro povero, deprimerebbe i consumi già in calo (una delle voci principali del rimbalzo del Pil del 2021) e quindi avrebbe effetti negativi sullo sviluppo e sulla produzione; farebbe aumentare la spesa pubblica non per migliorare lo stato di cose, ma per ristoro alla povertà e per mancati introiti legati ai consumi. Quindi, o si ha il coraggio e la volontà di dire al Paese cosa si intende fare rapidamente per tutelare collettivamente i più deboli, o non ci si stupisca poi se ognuno tutelerà solo i propri interessi (come stanno già facendo le lobby) e se il clima generale del Paese peggiorerà.

Non siamo ancora in stagflazione, anche se l’inflazione è molto alta e crescente, mentre i dati futuri sul Pil si abbassano, ma i rischi ci sono. Per evitarlo non bisogna riprodurre le sbagliate e perdenti ricette degli anni ’70, ma bisogna sostenere lo sviluppo e i consumi e quindi tutelare i salari. Il modo prioritario per farlo come detto è l’occupazione a partire dalle scelte del Pnrr che devono essere verificate perché diano risultati più alti di quelli attualmente previsti sulla quantità di lavoro; così come gli investimenti e i bandi per l’accesso alle risorse devono essere strettamente collegati anche alla qualità dell’occupazione dicendo finalmente basta alla precarietà.

Ma non basta: gli interventi fiscali devono riguardare le accise, le bollette ma anche l’acquisto dei generi essenziali di più alto consumo; va combattuta la speculazione a partire da una verifica sulla presenza di nuove bolle speculative giustificate in nome della guerra; la delega fiscale deve essere accelerata dando immediate risposte alla parte più povera della popolazione come, sbagliando, non si è fatto a dicembre scorso. Richiamare invece gli anni ’70 per parlare di austerità o per affermare di non ripetere la rincorsa prezzi-salari è sbagliato in sé, anche perché allora il rapporto tra i salari italiani e quello degli altri paesi a noi comparabili non era così squilibrato in basso per l’Italia come è oggi e una tutela del potere d’acquisto non metterebbe in discussione la competitività delle nostre imprese che certo non è dovuta ai salari.

E quando lo fosse, non è per la quantità dei salari, ma per volontà di imprese che scelgono di competere su una produzione di fascia bassa e quindi sul costo del lavoro. Immagino già l’obiezione, mancando extra-gettiti come quelli legati alla forte crescita del 2021, lo si potrebbe fare solo in deficit peggiorando il nostro debito. Ma come è noto, i parametri del debito peggiorano anche con minore crescita (figuriamoci con la stagflazione) e in ogni caso, l’aumento del 2% delle spese militari è ritenuto possibile. Tutto questo, al netto di scelte europee da richiedere con forza, di ulteriore rinvio del Fiscal compact e di revisione dei trattati.

È necessario anche ragionare del clima presente fra le persone. Le guerre provocano principalmente lutti e danni, ma peggiorano anche le dinamiche economiche e sociali, incidono sulla psicologia delle persone creando insofferenza e paure. La sequenza degli ultimi quattordici anni è da questo punto di vista impressionante: una pesante crisi nel 2008, una ricaduta tra il 2011 e il 2013, lo scoppio della pandemia nel 2020 (che ancora non finisce), la guerra in Ucraina e le ancora incalcolabili conseguenze future che porterà. Non tutti hanno pagato in modo identico queste fasi, c’è chi ha sofferto di più.

Il periodo fra l’altro è abbastanza lungo perché questi effetti concreti e queste insicurezze, questa mancanza di fiducia nel futuro, siano penetrati nel profondo delle persone, cambiando il loro modo di pensare e di comportarsi. Se non si danno le giuste risposte queste dinamiche possono ancora peggiorare, segnando profondamente il futuro della nostra società.

Non ci sono solo dunque evidenti e urgenti elementi economici, ma di giustizia sociale che motivano le scelte da adottare. Solo così sarà possibile una discussione di merito anche sul nostro patrimonio produttivo (la produzione industriale a dicembre e gennaio è già in calo). È evidente come le ricadute economiche della guerra, le nuove economie di guerra che si prospettano, stiano già provocando e via via provocheranno scelte negative e rinvii su fondamentali priorità come politiche tecnologiche, ambientali ed energetiche.

Dobbiamo certamente utilizzare tutte le risorse disponibili fino al 2026, ma non possiamo lasciare così sottotraccia quali ricadute strutturali avranno questi investimenti anche dopo quella data in produzione stabile, in occupazione e in settori strategici per lo sviluppo futuro. Ci vuole anche nelle fasi più difficili come questa, prospettiva nelle scelte che si adottano. Non lo possono fare, lobby di interesse che all’emergenze rispondono solo con richieste di parte o con chiusure di attività. Con chi lo può e lo deve fare dunque il governo? Lo può fare solo nel rapporto con le forze sociali e le istituzioni locali, puntando al merito ma anche ricordandosi dello storico ruolo di raccordo tra società e stato che da sempre, ad esempio le organizzazioni sindacali confederali, svolgono in Italia. Se non lo facesse le ricadute saranno inevitabilmente negative, ma si tratterebbe di una scelta e di precise responsabilità.

Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio