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La decisione della Federazione italiana gioco calcio di riconoscere il professionismo delle calciatrici è una buona notizia ed è il frutto di una lunga battaglia che Assist, l’associazione che riunisce le atlete italiane, porta avanti da vent’anni e che le donne che praticano sport, non solo per passione ma per lavoro, hanno aspettato da sempre. Nel calcio l’attesa è durata 124 anni e ben venga che sia terminata, ma ci sono altre 44 federazioni sportive che ancora non hanno compiuto questo passo.
È proprio per questa ragione che per la presidente di Assist Luisa Garribba Rizzitelli “purtroppo questo successo per il calcio italiano e per le calciatrici non sarà una vittoria per lo sport italiano, perché nelle altre discipline sportive tutto resterà come prima: non avremo cestiste, sciatrici, nuotatrici, pallamaniste professioniste. E non le avremo perché gli altri 44 presidenti federali, votati ed eletti dai datori di lavoro di atlete e atleti, non hanno ancora fatto il passo che invece la Figc, prima in Italia, ci annuncia di aver compiuto: chiedere che le proprie discipline, non solo femminili, abbiano accesso al professionismo quando si configurino i requisiti del lavoro sportivo".
Antonella Bellutti è un’atleta eclettica che ha saputo conquistare nella sua carriera due ori in due edizioni consecutive dei giochi olimpici, ad Atlanta e a Sidney, per poi dedicarsi a un’altra disciplina: il bob a due femminile. È anche l’unica atleta italiana che abbia fatto parte delle Nazionali di tre federazioni sportive diverse. Una campionessa mai riconosciuta professionista. “La situazione – ci racconta – è paradossale: a fronte di un’attività che nel tempo è diventata sempre più precoce, totalizzante e iper-specializzante anche dal punto di vista della formazione, le donne – e insieme a loro, va precisato, anche gli uomini che non fanno parte delle quattro federazioni che attualmente riconoscono il professionismo maschile: calcio, basket, ciclismo e golf – sono di fatto lavoratrici prive di quei diritti che normalmente chi lavora, per quanto precario, ha: niente tfr, niente previdenza, nulla di nulla. Neppure la maternità come ci ha drammaticamente ricordato non più di un anno fa l’assurda vicenda della pallavolista Lara Lugli, citata in giudizio per danni dopo essere rimasta incinta”.
Questa situazione intollerabile è imputabile a una norma che Stefania Passaro, che ha giocato ai massimi livelli del basket italiano per ben diciassette anni portando a casa dieci scudetti, sei coppe campioni e cinque coppe Italia, non esita a definire “incostituzionale”: “è la legge 91 del 1981 che affida solamente alle federazioni la possibilità di decidere se un atleta può essere considerato professionista”. Altro nodo è quello di un sistema sostanzialmente immobile: “Ho iniziato a giocare alla fine degli anni Settanta e l’ho fatto per quasi vent’anni. – aggiunge Passaro – La situazione è rimasta invariata con la stessa persona che negli anni ’90 era a capo della federazione italiana pallacanestro, Gianni Petrucci, ancora oggi alla guida della Fip. I progressi, quindi, davvero non li registro e non riesco a misurarli. Intanto non solo, come diceva Antonella Bellutti, non abbiamo contributi, liquidazione, diritto alla maternità, ma mancano persino le tutele contro gli infortuni: può accadere che le atlete si facciano male e non siano coperte da un’assicurazione stipulata in loro favore dalla società finendo così per spendere tutti i loro risparmi per rimettersi in piedi”.
L’obiezione che viene mossa spesso è che il passaggio al professionismo, e quindi a un lavoro riconosciuto, sia troppo costoso per le società, ovvero per i datori di lavoro. Per Passaro “Non ci sono altre parole per rispondere se non che è un’obiezione insopportabile, ed è un Paese incivile quello che non riconosce diritti essenziali a chi lavora adducendo come scusa l’insostenibilità dei costi per i datori di lavoro. Tra l’altro adesso ci sarebbero i fondi del Pnrr per favorire questo passaggio, risorse che verranno utilizzate solo dalla Figc. Mi aspetto che Gianni Petrucci che sta lì da trent’anni segua l’esempio. Siamo pronte oggi, non domani. Dobbiamo esserlo e dovrebbero scendere in campo tutte le donne dello sport per chiederlo con forza”.