Jòvana, 24 anni, studentessa universitaria, serba. Non è nata in Italia, ma ci vive da quando aveva due anni. Non ha la cittadinanza italiana. È un'attivista del movimento #Italianisenzacittadinanza e, come tutti coloro che si sono trovati nella sua condizione, ha vissuto sulla propria pelle tutte le limitazioni e le difficoltà che comporta non avere un passaporto italiano.

“Essere privi di cittadinanza implica l’avere costanti preoccupazioni, già da quando sei bambina. Noi ragazzi che cresciamo in Italia abbiamo sempre paura di essere mandati via e di non tornare più, ad esempio se un genitore perde il lavoro. Questo crea tanta instabilità per un bimbo”. Jòvana descrive cosa implica non essere cittadina italiana anche nella vita quotidiana, come perdere giorni di scuola quando si deve andare a rinnovare il permesso di soggiorno, o rinunciare alle gite scolastiche all’estero perché il visto è costoso, o non accedere alle borse di studio o ai concorsi per soli italiani.

E poi arrivano i 18 anni: “Vedi i tuoi compagni che votano e tu no, ed è un grande peso quando ti senti cittadina attiva. Vai all’università e partecipare al Programma Erasmus è un problema perché alcuni paesi richiedono di spostare la residenza, ma tu non puoi per il problema dei ‘buchi’, perché c’è bisogno di una continuità residenziale che spesso un immigrato non ha. Studio alla facoltà di Scienze politiche, a Roma, ma ai bandi della Farnesina non posso partecipare. Noi seconde generazioni non siamo rappresentate”.

Persino in piena emergenza Covid i giovani medici e infermieri stranieri senza un permesso di lungo periodo non hanno potuto partecipare alla chiamata negli ospedali per fare fronte alla pandemia, ci spiega Jòvana, ricordando che comunque lo Stato ha investito anche sui loro studi. “Chi è figlio di cittadini stranieri – dice – deve sempre rincorrere un motivo per avere il permesso di soggiorno: prima per motivi familiari, poi per studio, poi devi presentare un contratto per giustificare i motivi di lavoro".

"Ho fatto richiesta di cittadinanza nel febbraio del 2018, il termine per averla doveva essere di due anni, ma con il decreto Salvini gli anni sono diventati quattro e, anche se il governo Conte li ha portati a tre, io avevo comunque presentato la richiesta prima della data del decreto. A questo punto non so più quando riuscirò a ottenerla. Devi mantenere i requisiti del  reddito per tre anni prima della domanda e quattro anni dopo, e, in una situazione come quella dell’economia italiana, non è facile. Non lo è nemmeno per chi in Italia è nato, figuriamoci per noi ‘senza speranza’. Molti di noi fanno riferimento al reddito dei genitori, che però spesso fanno lavori umili, sono soggetti al mercato, quindi è facile che perdano il posto”.

E poi c’è la già citata criticità del buco di residenza, perché “con il decreto Del fare del 2013 si stabilisce che chi nasce in Italia, per chiedere la cittadinanza, deve utilizzare i certificati vaccinali e scolastici così da verificare la presenza e chiudere i buchi, ma questa possibilità non viene data a chi non è nato in Italia. Quindi hai minori possibilità di dimostrare di essere vissuto qui con continuità, e rischi di vedere la domanda rifiutata".

Jòvana non rientra tra i beneficiari di un eventuale legge che sancisca, lo ius soli ed è anche per questo che chiede possa essere formulata una proposta più ampia e articolata di quella che vincolerebbe il diritto di cittadinanza alla nascita in suolo italiano. “Ci sono genitori che fanno domanda di cittadinanza quando i figli sono minorenni, per non parlare di chi si ritrova con tutta la famiglia italiana nella quale è unico figlio straniero. Mia mamma voleva fare richiesta quando avevo 11 o 12 anni, ma non aveva i soldi necessari, quindi abbiamo aspettato la mia maggiore età. Chi cresce in Italia senza esserci nato è completamente dimenticato – conclude - e a me sembra assurdo: cosa cambia tra coloro che qui nascono e chi viene qui da bambino e qui va a scuola e diventa grande? Mi piacerebbe davvero vedere più capacità di comprensione”.