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Nata nel 1935 per volontà del chimico Carlo Luigi Randaccio la Sloi, acronimo di Società Lavorazioni Organiche e Inorganiche, è un’azienda presente a Trento dall’inizio del secondo conflitto mondiale, la cui produzione di piombo tetraetile viene aggiunta alla benzina degli aerei da guerra come antidetonante. Ma dopo il 14 luglio del 1953, quando una minacciosa nube di cloro si alzò diffondendosi per l’intera zona, gli operai e gli abitanti iniziano a capire la gravità della situazione, denunciandola in particolare verso la fine degli anni Sessanta attraverso scioperi sul luogo di lavoro, e manifestazioni nei luoghi istituzionali.
Nel cuore di questo scenario, ripercorso in uno spazio temporale che arriva ai nostri giorni grazie alle vicissitudini dei suoi protagonisti, si muove con il consueto nitore stilistico il nuovo romanzo di Tommaso Giagni, dal titolo La fabbrica e i ciliegi (Ponte alle Grazie, pp. 216, euro 16,50). Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.
Quella della Sloi è una vicenda poco conosciuta in Italia, eccetto Trento e i suoi dintorni, direttamente coinvolti. Come nasce l’idea di raccontarla?
Nasce da questo scarto. Sono arrivato a vivere a Trento nel 2021, e poco dopo mi è capitato di scrivere per L’Espresso di una fabbrica del presente che mi ha portato a una fabbrica del passato, la Sloi per l’appunto, scoprendo una storia davvero importante, di dimensione nazionale, accorgendomi al tempo stesso che non solo io, ma persone con cui ne parlavo fuori da Trento non ne sapevano nulla. Da questo scarto ho pensato di portare questa storia fuori dal suo territorio per ricordarla anche alle generazioni di giovani trentini: si sa cos’è la Sloi, ma un ventenne o trentenne di oggi ne ha una idea vaga.
Il titolo evoca la distruzione dei raccolti intorno alla fabbrica, che i contadini del luogo rilevarono già subito dopo la fine della seconda guerra mondiale…
Assolutamente. Da una parte c’è la fabbrica, ci sono i lavoratori, molto importanti nel romanzo e nella storia della Sloi, dove mettere al centro quanto questa ferita sia una ferita del territorio. Dall’altra parte ci sono i ciliegi, che nel titolo rappresentano una parte per il tutto, tutte le piante, le risorse naturali. All’epoca i ciliegi impazzivano, fiorivano fuori stagione, e questa cosa si sapeva già dai primi anni ’40. I contadini che lavoravano le terre intorno alla fabbrica protestavano per il danneggiamento dei raccolti, la tossicità, la nocività per uomo e natura. Dunque si sapeva tutto dall’inizio, ma si è andati avanti per quasi quarant’anni, in una specie di consapevolezza a metà.
Attorno a questa vicenda si articolano le vite dei protagonisti del romanzo, appartenenti a un’altra generazione, ma alla ricerca di verità nascoste.
Uno dei personaggi, Cesare, è sulla soglia dei cinquanta, mentre Marilù e Lori sono due trentenni molto rappresentativi della loro generazione: tutti e tre alla ricerca di un rapporto con le origini, nel tentativo di ristabilire un contatto con le proprie radici, con qualcosa di tagliato, o mancato. Sono tre personaggi che in qualche modo devono ricostruire un rapporto, fare i conti con il passato, con i loro luoghi d’origine. Loris viene dalla valle, e il rapporto tra Trento e le sue valli ho provato a gestirlo e interpretarlo come avevo fatto nei miei libri precedenti, un rapporto tra centro e periferie metropolitane. Loris ce l’ha fatta, ha tagliato le sue radici; Marilù cerca continuamente la propria strada, ne fa un pezzo e poi torna indietro, e questa frammentarietà secondo è molto generazionale.
Dopo “I tuoni”, ambientato nella periferia romana, seppur geograficamente distanti anche in questo libro al centro della riflessione torna un certo disagio generazionale, il desiderio di trovare un significato alla propria esistenza, la voglia di fuggire verso un altro mondo. In questo senso i due libri comunicano tra loro?
Sì, comunicano. Tutti i miei libri parlano tra loro, raccontano e si concentrano su temi quali la ricerca di un proprio posto, di un’appartenenza, sul rapporto tra appartenenza ed estraneità, con la propria storia famigliare, con i padri. Tra centro e periferia.
La Sloi non c’è più, e in molti sostengono che, in generale, sia la classe operaia a non esistere più. Ma è davvero così?
Penso ci sia bisogno di una ri-declinazione di alcune realtà. Ci sono storie ancora in piedi, nodi irrisolti, come l’Ilva, e credo che il tutto ora vada forse osservato con strumenti diversi. Ma la questione è sempre lì, la storia è sempre quella di un baratto tra lavoro e salute. Il Trentino in quegli anni era un luogo dove c’era poco lavoro, dove si emigrava, e l’acronimo scherzoso che gli operai adoperavano per la Sloi era questo: “Sporchi Lavori, Ottimi Incassi”… Ecco, questo per dire che va tenuto d’occhio il ruolo della politica e delle istituzioni. Il fatto che sia esistita per quasi quarant’anni una realtà come questa è una responsabilità prima di tutto delle istituzioni, che non hanno tutelato i lavoratori, i cittadini, il territorio intero.