Il 3 novembre del 1957 muore a Lecco Giuseppe Di Vittorio.

Venti giorni più tardi scrive Bruno Trentin alla sorella Franca: “Mia Franchina, dopo un lungo silenzio posso scriverti e tramite te anche a Mario. Quest’ultimo periodo è stato convulso e sconvolgente, per me. […] La morte di Di Vittorio ha rappresentato naturalmente il maggiore elemento di sconvolgimento. Ero a Napoli, di ritorno da Palermo, quando si è diffusa la notizia. E puoi immaginare quanto mi abbia colpito. Tuttora non ho ancora completamente eliminato la sensazione d’angoscia e di dolore che mi ha provocato. Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale. Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e – retorica a parte – semplicemente di uomo”.

“Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre “provocatorio”, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni. Qualche volta – e in questi ultimi tempi, spesso – questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun “sistema”, in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente “la sua ragione d’essere”. Anche in modo ingenuo, Di Vittorio vedeva nella società capitalistica italiana “la ricchezza che poteva essere prodotta” – e che non lo era – piuttosto che la “povertà” esistente. Ed era l’idea della “ricchezza” ad entusiasmarlo. Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre “al corrente” delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir “escluso”, di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea. Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ “populistica” e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno”.

C’è in queste parole tutto Di Vittorio. Un Di Vittorio vivo e attuale. Oggi come ieri. Pensiamo al Piano del lavoro (1949), alla proposta di uno Statuto dei diritti dei lavoratori (1952), alla proposta del salario minimo (1954), al ritorno in fabbrica del sindacato (1955), al concetto stesso del ruolo politico del sindacato nella accezione più alta e pura del termine.

E ancora il concetto di unità, di autonomia che trova nella vicenda del ’56 ungherese il suo punto più alto, ma certamente non il solo.

“È possibile unificare gli italiani onesti attorno ad un obiettivo comune, nazionale, di lavoro, di sviluppo economico, di progresso, creando le condizioni d’una effettiva e durevole distensione sociale e politica? Noi lo crediamo”. Così Di Vittorio presentava al Paese il Piano del Lavoro, illustrando - scrive Fabrizio Loreto - la sua idea del “sindacato del popolo lavoratore”, un soggetto confederale poggiato stabilmente sulle Camere del Lavoro, costantemente impegnato nella difesa dell’interesse generale di occupati e disoccupati, a prescindere dalla loro condizione personale (di sesso, provenienza, religione, età, collocazione produttiva), e nella promozione di un programma politico di cittadinanza per tutti, fondato sul riconoscimento universale del diritto al lavoro”.

Non è possibile negarlo. Il pensiero di Giuseppe Di Vittorio mantiene una sorprendente attualità anche oggi, a distanza di decenni dalla sua scomparsa e le sue battaglie risuonano ancora con forza di fronte alle sfide del mondo del lavoro contemporaneo.

Da bracciante poverissimo e semianalfabeta nella Puglia dei primi anni del Novecento a fondatore del più grande sindacato dell’Italia democratica, deputato all’Assemblea costituente, esponente di spicco del Partito comunista nel dopoguerra e presidente della Federazione sindacale mondiale, quella di Giuseppe Di Vittorio è una vita avventurosa e intensa, che spesso sfiora i confini della leggenda, senza però mai perdere di vista i valori più preziosi: il lavoro e la democrazia.

Se Togliatti è il capo indiscusso della classe operaia, Di Vittorio ne è il mito, un mito che nasce dalla sua identificazione totale con il mondo del lavoro in un riconoscimento trasversale e assoluto.

“Più di ogni altra la figura - scriveva qualche anno fa Filippo Ceccarelli - di Di Vittorio si staglia per qualcosa di molto speciale, un´ispirazione che ancora oggi sfugge a qualsiasi giudizio ideologico: l´umanità. E l´allegria. A sfogliare le vecchie riviste, fra tante foto di comunisti pallidi, gelidi e affilati, colpisce il fatto che lui e solo lui, Peppino, ride e sorride. Aveva quel dono lì. Anche questo lo rendeva un capo. Max Weber ha scritto pagine definitive sull’arte del comando e sui profeti carismatici. Di Vittorio suscitava nelle folle prodigiosi meccanismi d´immedesimazione. Ma il prodigio nel prodigio stava nell´intelligenza con cui di slancio riusciva a incanalarli nella realtà delle lotte e delle soluzioni possibili”.

Nella Assemblea Costituente, nella Cgil, nella Fsm, in Parlamento e anche al Comune di Roma (Di Vittorio è consigliere comunale per 2 legislature). Scelba gli ritira il passaporto nella primavera del 1952, impedendogli di recarsi a New York al Consiglio Economico e Sociale dell’Onu come presidente della Federazione Sindacale Mondiale (già due volte Peppino è volato negli Stati Uniti, privilegio unico per un comunista).

Protestano tutti. I tassisti di Milano, la vetroceramica di Napoli, i mezzadri di Pesaro, gli operai delle Tornerie Ruote Officina Locomotive di Verona, l´Anpi di Reggio Emilia, le donne comuniste di Crema, i lavoratori di Palermo (a loro nome firma Emanuele Macaluso), i braccianti di Alfonsine.

Di Vittorio è un deputato della Repubblica, i parlamentari della Cgil protestano con il presidente della Camera. È il giovane Luciano Lama che gestisce la pratica. Siamo nella primavera del 1952, Di Vittorio sta per compiere 60 anni.

Un avvenimento importante, che i suoi festeggiano prima a Cerignola - il 3 agosto - poi a La Spezia. “Abbiamo fatto molta strada assieme, caro Di Vittorio - gli scriveva Togliatti -. Assieme abbiamo lavorato, resistito, combattuto. Siamo stati alla scuola delle persecuzioni e dell’esilio, ma anche alla grande scuola del movimento operaio comunista internazionale (…) Così abbiamo potuto conoscerci a vicenda ed io ho conosciuto in te, prima di tutto, il figlio devoto di quel popolo italiano, di cui provasti le sofferenze e di cui possiedi le grandi capacità di intelligenza e tenacia (…) Saluto in te il militante proletario, artefice ostinato e capo della grande organizzazione unitaria degli operai e di tutti i lavoratori italiani. Saluto il dirigente comunista, temprato a tutte le prove. Saluto l’uomo semplice, che ha saputo non perdere mai il contatto diretto, di sentimento e di passione, di sdegno per le condizioni non umane di oggi e di speranza nell’avvenire, anche con il più povero e abbandonato dei lavoratori”.

“Altri parlavano meglio di Lui - dirà il giorno del funerale Pietro Nenni -. Altri scrivevano meglio di Lui. Altri erano più dotti nel citare pagine di Marx o di Lenin. Nessuno ha eguagliato il patos umano della sua eloquenza e della sua azione. Se stasera tutta la Roma del popolo è attorno al suo feretro, è perché nessuno meglio di Lui ha saputo interpretarne l’animo”.

“Di Vittorio è morto - scriverà su Lavoro Gianni Toti - e nessuno forse potrà mai più sostituirlo nel cuore degli italiani, prendere quel posto che vi occupava, dove affondava radici col diritto del buon seme. Ma lo sgomento dei primi giorni sta già trasformandosi in una dolorosa eppure costruttrice presa di coscienza. Così totale, così unanime il dolore dei lavoratori che già appare come una forza nuova, un rinascere di Giuseppe Di Vittorio nella testimonianza unitaria del dolore. Tutti insieme, forse... Abbiamo sentito ripetere spesso questa frase, durante i funerali. Tutti insieme certamente: si risponde già. E non è stato forse il movimento a costruirsi ‘a sua immagine e somiglianza’ il suo dirigente? E il dirigente sorto dal popolo non era forse popolo egli stesso, fatto di tutti noi? Certo, non sarà facile. Dovremo lavorare meglio, studiare di più, più lucidamente e più democraticamente discutere, raccogliere le forze e saggiamente disporne. Ma niente è più falso della ipocrita considerazione propagandistica svolta dai giornali dell’avversario, secondo la quale la morte di Di Vittorio provocherà una crisi catastrofica nel movimento sindacale unitario. Sarà proprio la coscienza del vuoto profondo che Di Vittorio lascia nelle file del movimento che potrà trasformarsi in una spinta più forte, che scaturisca dalle correnti sotterranee e creative dello spirito popolare”.

Giuseppe Di Vittorio è stato senza alcun dubbio il “padre” della Cgil, colui che più di tutti ne ha segnato i caratteri principali e gli elementi peculiari. Nella storia ultracentenaria del principale sindacato italiano, ha rappresentato certamente un unicum: ad esempio, è stato il solo segretario generale di origine meridionale ed il solo a provenire dal mondo agricolo.

“È giusto - diceva in quello che rimarrà il suo ultimo discorso pubblico (1957) - che in Italia, mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie, delle loro creature? È giusto questo? Di questo dobbiamo parlare, perché questo è il compito del sindacato”.

Di questo dobbiamo parlare, perché questo è il compito del sindacato.

“Lavorate sodo, dunque - ci diceva - e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti. Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere. Buon lavoro, compagni”.

Buon lavoro, compagne e compagni. Al lavoro, alla lotta.