Nel settembre del 1904, a Buggerru, comune situato sulla costa occidentale della Sardegna, nella sub-regione dell’Iglesiente, i minatori si ribellano ai soprusi padronali e decidono di incrociare le braccia. Il momento di massima tensione si raggiunge il 2 settembre, quando il direttore della miniera, l’ingegnere Achille Georgiades, decide di ridurre l’orario di riposo ripristinando l’orario invernale all’inizio di settembre.

Lo sciopero scoppia il giorno successivo, con gli scioperanti che si avviano verso tutti i cantieri invitando i loro colleghi ad astenersi dal lavoro. I dirigenti della società francese che gestisce la miniera e le terre circostanti chiedono l’aiuto delle autorità piemontesi, che mandano nel piccolo centro dell’isola due compagnie di fanteria.

Il tragico bilancio finale sarà di tre (secondo alcune fonti quattro) morti e decine di feriti. L’indignazione generale per l’accaduto porterà alla proclamazione del primo sciopero nazionale della nostra storia.

L’11 settembre la Camera del lavoro di Milano approva una mozione per lo sciopero generale da organizzare in tutta Italia entro otto giorni (è il socialista Costantino Lazzari a lanciare la parola d’ordine “Sciopero nazionale” a Milano nel corso di un comizio al quale parteciparono 40 mila operai).

Il 14 settembre a Castelluzzo, in provincia di Trapani, si verifica un altro eccidio. Durante una manifestazione dei contadini, che protestano contro lo scioglimento di una riunione locale e l’arresto di un socialista dirigente di una cooperativa agricola, i carabinieri sparano sulla folla lasciando sul terreno morti e feriti.

Alla notizia dell’ennesima strage la Camera del lavoro di Milano proclama lo sciopero generale nazionale che si protrarrà dal 16 al 21 settembre. Lo sciopero comincia ad attuarsi con larga partecipazione a Milano e a Genova e via via a Parma, Torino, Bologna, Livorno, Roma. Nei giorni seguenti la mobilitazione coinvolgerà Bari, Napoli, Palermo, Catanzaro, Brescia, Biella, Venezia e Perugia.

Le astensioni dal lavoro coinvolgono gli operai, gli artigiani, i gasisti, gli addetti alla pubblica illuminazione. Si fermano anche i tram e i giornali. Diminuisce la circolazione ferroviaria.

La protesta terminerà il 21 settembre, con l’impegno assunto da parte di un nutrito gruppo di parlamentari socialisti a presentare immediatamente in Parlamento una proposta di legge diretta a vietare l’uso delle armi da parte della forza pubblica durante i conflitti di lavoro, ma la richiesta da parte di Giolitti di scioglimento anticipato delle Camere renderà di fatto nulla la promessa.

“Era chiaramente mancata nel 1904 un’organizzazione centrale capace di coordinare e organizzare il movimento e le sue grandi potenzialità”, scriverà Carlo Ghezzi: “Le Camere del lavoro e le federazioni nazionali di categoria maturarono così la necessità di uscire da forme fragili di coordinamento, di uscire dal localismo e di darsi definitivamente una sola e forte struttura nazionale di direzione e organizzazione. Nel corso dei successivi due anni avrebbero dato vita alla CGdL, avrebbero fondato quella Confederazione generale del lavoro nata nel 1906 che tanto avrebbe segnato la storia d’Italia nel secolo che abbiamo alle spalle”.

“Quel soggetto confederale che nasce quel giorno è altro e più delle rappresentanze di categoria, professione, arte e mestiere e del mutualismo delle origini”, dirà Guglielmo Epifani: “Non è altro perché diverso e non è più perché sovraordinato. Ma perché l’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati”.

Prosegue Epifani: “Solo un sindacato confederale - quello di ieri e quello di oggi - può tenere unite, dentro di sé, le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del Sud e quelli del Nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani e i pensionati. Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri”.

La Confederazione generale del lavoro (CGdL) nasce al primo congresso di Milano del 29 settembre - 1° ottobre 1906: 500 delegati (tra cui almeno tre delegate), in rappresentanza di 700 leghe per un totale di 250 mila iscritti, ne proclameranno la costituzione.

Scriveva su Lavoro Giuseppe Di Vittorio in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione: “A misura che avanzava il movimento sindacale, si sviluppavano le lotte e si strappavano nuovi miglioramenti economici e sociali, il pigro capitalismo italiano veniva scosso dal suo letargo: le conquiste operaie forzavano il progresso tecnico e lo sviluppo produttivo, come la conquista dell’imponibile dei braccianti agricoli forzava le trasformazioni fondiarie, il prosciugamento di vaste paludi (già fonti di malaria e di miseria) e la messa in valore di grandi estensioni di terre incolte”.

Aggiungeva Di Vittorio: “Tutta la società era scossa dalle conquiste operaie e spinta in avanti. La classe operaia ha esercitato e continua a esercitare con efficacia la sua funzione di stimolo allo sviluppo produttivo e al progresso sociale e civile di tutta la società nazionale. È un titolo indelebile di gloria della vecchia Confederazione generale del lavoro, di aver diretto questo grande movimento di rinnovamento sociale”.

In oltre un secolo di storia l’Italia ha attraversato stagioni molto diverse, sul piano sia economico sia politico. Dall’età giolittiana alla crisi del primo dopoguerra, dalla drammatica esperienza della dittatura fascista alla guerra di Liberazione, dalla ricostruzione al miracolo economico, passando per il terribile periodo dello stragismo e del terrorismo fino agli anni più recenti, la Cgil è stata una delle principali protagoniste della storia del Paese.

Una storia che tutte e tutti insieme abbiamo scritto e continuiamo a scrivere con la consapevolezza, forte e inamovibile - mai come oggi - di servire una causa grande, una causa giusta. “La nostra causa - ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio - è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici”.

Perché - diceva Bruno Trentin - “lavorare per la Cgil e nella Cgil non è un mestiere come un altro, ma può essere, può diventare una ragione di vita”. Perché “ci sono delle radici che non si possono sradicare”. Radici che ci permettono di rimanere sulla Via Maestra. A schiena dritta e testa alta. Guidati da quella incredibile bussola, la nostra - di tutte e tutti - Costituzione, che per la Cgil ha rappresentato, dal “Piano del lavoro” ai fatti del giugno-luglio 1960, dal dopoguerra agli anni Settanta, dal ventennio berlusconiano all’era della disintermediazione, fino all’oggi, un orizzonte mai dimenticato.

“Il centenario - affermava Guglielmo Epifani - è l’occasione per riscrivere questa storia - che non è solo la nostra, ma appartiene a tutti - per tirare fuori dagli archivi la memoria di persone e generazioni che con il loro impegno e la loro scelta di vita hanno contribuito al processo di emancipazione del lavoro, hanno dato senso a parole come diritti e dignità, hanno liberato il lavoro dalla schiavitù, dall’oppressione, hanno fatto crescere partecipazione e democrazia, coscienza di sé e delle proprie ragioni. Ci hanno fatti diventare tutti un po’ più diversi, e un po’ più uguali, un po’ più meticci”.

L’allora segretario generale così argomentava: “Tante storie locali, municipali, di città e di paese, più antiche e più recenti, si sono aggiunte in una gara per scoprire radici lontane e suggestioni sempre uguali: le storie di miniera (ad agosto ricorre il cinquantesimo anniversario dei morti di Marcinelle) e quelle delle risaie, gli opifici e le manifatture, le prime grandi fabbriche, l’epopea dei nostri martiri siciliani, prima e dopo Portella della Ginestra, le emigrazioni degli anni cinquanta e sessanta, il lavoro fordista, la stagione terribile delle stragi e del terrorismo. Quel terrorismo che (…) uccise il professor Marco Biagi. Tutto questo per arrivare a una conclusione semplice e vera: questa storia non è la storia di una parte del paese, o una storia minore, ma costituisce - non da sola ovviamente - la nostra identità storica e la nostra comune democrazia. È la radice delle nostre libertà”.

Concludeva Epifani: “Ripartiamo con un nuovo inizio, orgogliosi della nostra storia e dei valori, che ne hanno segnato il percorso e ne accompagneranno il futuro, insieme con tanti altri al nostro fianco. In questo modo la storia centenaria della Cgil e di tutto il sindacato continuerà a vivere davvero e sarà stata una storia spesa bene, per chi la volle e per il Paese. Una storia che con emozione e orgoglio - non inferiore a quello che provarono i delegati di quel congresso cento anni fa - consegniamo a tutti coloro che verranno. Perché questa storia gli appartiene, perché vogliamo che il futuro comune riparta da qui”.

Buon compleanno, compagne e compagni. “Certo è difficile dire oggi questa parola”, ci aveva anticipato ormai qualche anno fa Rossana Rossanda: “Non capiscono più in che senso lo dicevamo. È una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. È qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme”.

Lavorare insieme in quella Cgil “strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire”. Diceva Bruno Trentin: “Un sindacato di donne e di uomini che si interroga sempre sulle proprie scelte e anche sui propri errori, che cerca di apprendere dagli altri per trovare tutte le energie che gli consentano di decidere, di agire, ma anche di continuare a rinnovarsi, di dimostrare con i fatti la sua capacità di cambiare e di aprirsi a tutte le esperienze vitali e a tutti i fenomeni di democrazia che covano ora e che covano sempre nel mondo dei lavoratori”.

“Ho passato tutta una vita nel lavoro sindacale”, proseguiva Trentin: “Probabilmente questa scelta l’ho fatta perché ho scoperto, anche quand’ero molto giovane, nella classe lavoratrice una straordinaria voglia di conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non avevano avuto la fortuna di un’educazione, di partecipare a un’esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa causa”.

Una causa grande. Una causa giusta.