Se siete tra i sostenitori dell’idea che un film ben riuscito si basi su una trama che ruota intorno ai colpi di scena, nella spasmodica ricerca delle evoluzioni dei personaggi e degli sviluppi narrativi, “Rue Garibaldi” potrebbe farvi cambiare idea. Nel film di Federico Francioni, vincitore del Working Title Film Festival appena concluso, l’immobilismo dei personaggi e della storia è il terzo protagonista insieme ai due fratelli, Ines e Rafik. I turning point, seppur presenti soprattutto nel finale, si celano sapientemente dietro un’esasperazione di esistenze ferme, nello spazio e nel tempo.

Il nome della via che dà il titolo al film è quello dell’unico luogo in cui lo stesso si ambienta, trasmettendo perfettamente il senso di una precarietà esistenziale che diventa una specie di prigione, in parte inconsapevole, in parte confortevole. Francioni gioca con una fotografia evocativa, molto poetica, che rincorre finestre, geometrie di luce in mezzo alle ombre, come se il buio che domina nella casa dei protagonisti fosse anche una sfumatura delle loro anime.

Rafik e Ines sono due giovani siciliani di origine tunisina, emigrati a Parigi alla ricerca di un lavoro, di una vita diversa, ma anche di una definizione di se stessi. “Quando mi chiedono da dove vengo non so cosa rispondere” dice Ines, e in questa frase c’è tutta la fatica di raccontare la propria molteplicità in un mondo che ha bisogno di etichette precise e forme definite. I due fratelli hanno, invece, la forma dell’acqua. Come molti altri giovani che il regista ha incontrato in Francia, sono nati in Italia da genitori stranieri e dunque privi della cittadinanza del paese nel quale da sempre hanno vissuto. Stranieri in ogni luogo: in Sicilia erano “i tunisini”, a Parigi possono finalmente dirsi italiani.

Un paradosso identitario che la legge stenta ancora a risolvere, e che in questo film si affianca a un altro grande ossimoro del nostro tempo: la precarietà, lavorativa ed esistenziale, che finisce per diventare l’unica cosa certa, una condizione stabile e persistente. Nel corso di un’ora circa di film, Rafik cambia diversi lavori, con in testa l’ossessione del trading online, chimera per il sogno di un oleificio tutto suo. Ines, senza lavoro dopo molto tempo, si trincera nelle stanze della sua casa e nella meticolosa pulizia dei vetri per arrivare finalmente, sul finale, a uscirne diretta verso un colloquio. Commuove la forza del legame viscerale tra i due – “Io per te sono sorella, madre, cugina, amica, famiglia e tu lo stesso sei per me”- e fa sorridere l’ironia con cui affrontano ogni giorno le piccole o grandi sventure.  É il gioco che li mantiene vivi.

Dal punto di chi guarda il film, la sensazione è che la stessa sceneggiatura non possa che essere stata scritta mentre si girava e poi, in buona parte, al montaggio. Allo stesso modo, la percezione è che le ore di girato per arrivare alla costruzione del film siano state moltissime. A volte frutto di una scelta ragionata e condivisa, a volte il risultato spontaneo di tutto quello che avviene dopo che si è lasciato andare a ruota libera il “play”.

La storia si scrive evidentemente nel momento stesso in cui si evolve, grazie alla presenza silenziosa, costante e discreta del regista - a volte chiamato in ballo dai protagonisti - che permette allo spettatore di immedesimarsi nel suo punto di vista, come se si fosse seduti accanto a lui mentre gira. La narrazione passa per la telecamera di Francioni, ma è come se i due protagonisti avessero poggiato il proprio cellulare in un punto della stanza, premuto play e cominciato a riprendersi. Questa sensazione quasi da video diario “spacca” il vetro dello schermo, in una connessione intima e immediata tra spettatore e protagonisti. È il valore aggiunto di un film che merita la vittoria perché racconta l’ordinario, nella sua straordinarietà.