Esattamente un anno fa ci lasciava Emanuele Macaluso. Nato il primo giorno di primavera del 1924 in una famiglia di modeste condizioni economiche (il padre era operaio delle ferrovie, la madre casalinga), Emanuele studia presso l’Istituto minerario Sebastiano Mottura di Caltanissetta. Nel 1941 aderisce clandestinamente al Partito Comunista d’Italia.

Giovanissimo è tra i protagonisti del movimento sindacale siciliano, diventando nel 1944 segretario generale della Camera del lavoro di Caltanissetta. Proprio a Caltanissetta, dal 10 al 12 maggio del 1947, si tiene il primo Congresso della Cgil Sicilia. E qui che il giovane Emanuele incontra per la prima volta Giuseppe Di Vittorio “che nelle mie scelte - dirà nelle proprie note autobiografiche - ha avuto un ruolo molto importante”.

Nei giorni del Congresso - ricorda Macaluso - Di Vittorio, “si informò in modo particolareggiato sulla vita della Camera del lavoro di Caltanissetta, e dopo pochi giorni propose la mia elezione a segretario regionale della Cgil, nonostante avessi solo 23 anni. Mi trasferii quindi a Palermo. Conoscevo poco la città e ancora meno i palermitani. Era difficile, in quegli anni, inserirsi in una società rigidamente stratificata e chiusa in ogni ceto. Palermo puoi amarla o odiarla. O, come capita a me, amarla e odiarla”.

Sono gli anni della lotta dei contadini per la terra, degli zolfatari per il lavoro, il salario e condizioni di vita decenti, gli anni della lotta contro la mafia. A causa del suo impegno sindacale Macaluso subisce molti processi, uno insieme a Pio La Torre per le occupazioni delle terre a Corleone nei feudi controllati dal mafioso Luciano Liggio.

In qualità di segretario generale della Camera del lavoro di Caltanissetta, Emanuele è sulla piazza di Villalba insieme a Girolamo Li Causi quando don Carlo Vizzini guida la sparatoria contro il comizio del leader del movimento contadino siciliano al quale i contadini avevano partecipato disubbidendo al diktat del boss. “Fu quello il mio primo bagno nella mafia del feudo, la mafia che aveva le terre in affitto”, ricorderà anni dopo.

Nel maggio del 1948 è a Portella della Ginestra per commemorare il primo anniversario della strage. A Portella, nella sua amata Sicilia, ritorna per l’ultima volta nel maggio del 2019.

“Non volevo mancare a quest’ultimo appuntamento della mia vita - dirà - Questa sarà forse la mia ultima presenza qui (…). Volevo tornare qui oggi dove sono cresciuto politicamente. Non potevo mancare a questo appuntamento, volevo tornare qui, questi sono stati i momenti della mia formazione. Per me, che poi ho avuto tanti incarichi, la mia formazione politica, sociale e umana è legata agli anni in cui sono stato nel sindacato in cui ho potuto coltivare un rapporto umano con migliaia di lavoratori, contadini, metallurgici, operai, braccianti e zolfatari. Quando gli operai del Cantiere scioperavano per 40 giorni e gli zolfatari per 60 giorni, pensate che io di notte potessi dormire? No, pensavo a quelle donne, a quegli uomini a quei bambini. Uno sciopero in quegli anni per me diventava un modo diverso di concepire il lavoro e la battaglia sindacale. E questo è stato. Ho diretto l’organizzazione del Pci, sono stato senatore, direttore de l’Unitá, ma la mia nascita come persona è qui”.

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Il 20 novembre del 2020 Em. ma. scriveva il suo ultimo post su Facebook: “Essere di sinistra - affermava - ha avuto un senso perché ha migliorato la vita a milioni e milioni di persone. Ne è valsa la pena”.

“Si è spento il faro. Resta la scintilla”, diceva annunciano la sua morte l’allora ministro Peppe Provenzano, che il giorno dei funerali commuoveva tutte e tutti noi, nella sede della Cgil, affermando: “Emanuele ha avuto una gran vita, vittorie e sconfitte, grandi amori e grandissimi dolori. È stato generoso nel raccontarli. Alcuni, li ha solo confidati. Oggi lo piange la famiglia (…). Lo piangono i compagni, gli amici di una vita, quelli che il 21 marzo non sapranno come festeggiare l’arrivo della primavera, tutti coloro che lo considerano un maestro. Per me è stato come un padre. Un padre, in una Patria sempre più povera di padri. Ma non si resta orfani di padri come lui. Noi non siamo orfani. Una storia così, dallo zolfo alle stelle, è una storia che non muore”. “Emanuele Macaluso non dimenticava nulla e per questo non si può dimenticare”, diceva Provenzano.

Per questo ci manca. Manca anche a un piccolo apprendista stregone come me che non perdeva occasione di intervistarlo e che alla ennesima visita si sentiva rispondere: “Signorì ho capito che sono uno dei pochi rimasto vivo, ma tu non puoi stare sempre a casa mia”.

Per uno strano scherzo del destino se ne è andato proprio nell’anno del centenario del Partito comunista. Un Partito al quale ha dato tanto, come del resto a tutte e tutti noi. Em. ma. ci manca, non possiamo negarlo. Ci manca la sua intelligenza, la capacità di visione politica, l’indipendenza del suo pensiero. Ci manca la sua cultura, l’ironia, la vis polemica, mai eccessiva, mai fuori posto.

Come disse lui stesso salutando Sciascia - “sentiamo un vuoto, avvertiamo che vengono a mancare una voce forte e una coscienza onesta che per tanti anni hanno stimolato la nostra intelligenza e arricchito il nostro sapere. Oggi avverto che mi viene a mancare una sponda nella vita.  Non esagero se vi dico che mi sento più solo. E con me tanti altri”.

Ma ha ragione Peppe Provenzano “non si rimane orfani di padri così”. E noi continueremo a far sentire la sua voce, continueremo a lottare per un ideale, per una storia che è anche la nostra, che è - stata e rimane - anche sua.