I cento anni dalla nascita di Leonardo Sciascia (1921-1989) sono l’occasione per ripensare la figura di uno scrittore al di fuori dei consueti canoni letterari, peculiarità di altri autori siciliani, su tutti ma non soltanto Luigi Pirandello. Ma Sciascia è stato anche un protagonista della vita politica e sociale dell’Italia del secondo Novecento, una figura controversa spesso al centro delle polemiche del tempo, in particolare quando, nei decenni Settanta e Ottanta, il fenomeno mafioso e la lotta alla criminalità organizzata divennero oggetto di attenzione della cronaca quotidiana e della pubblica opinione.

Ne abbiamo parlato con Nadia Terranova, scrittrice tra le più affermate in Italia e tra le più tradotte all’estero, che delle sue origini messinesi e della tradizione culturale siciliana restituisce un’immagine tra epos e mito (il recente Omero è stato qui ne è splendida testimonianza), offrendo allo stesso tempo ai suoi lettori una narrativa fortemente a contatto con la fantasia del reale, indagando il complesso rapporto con se stessi e gli altri.  

Lo scorso anno, giusto l’8 di gennaio, nel giorno della nascita di Leonardo Sciascia, Nadia Terranova scriveva in un articolo che “La storia di Sciascia è la storia d’Italia”. Un argomento tornato piuttosto vivo in questo centenario.

In effetti nel tempo mi sono accorta del fatto che la storia di Sciascia è quella dell’Italia soprattutto dagli articoli che scriveva sui giornali, fornendo ai suoi lettori una continua risposta a ciò che accadeva, dall’attualità politica alle uscite cinematografiche. Un’attività giornalistica caratterizzata dalla penna di uno straordinario osservatore, spesso tirato forzatamente dentro la polemica. A futura memoria (se la memoria ha un futuro) è dunque uno tra i miei libri più amati di Sciascia, pubblicato si può dire sul letto di morte, nel novembre del 1989, che raccoglie i suoi interventi in particolare apparsi su L’Espresso e il Corriere della Sera, e ci racconta molto della sua storia. Perché ora siamo tutti qui a santificarlo, ma Sciascia è stata una persona scomoda, spesso attaccata, anche odiata. E dunque è interessante leggere non soltanto i suoi scritti “in dialogo”, ma anche quelli in conflitto. In questo mi ricorda Pasolini, con il quale c’era un profondo rispetto nella loro profonda diversità. Credo siano uniti dalla stessa sorte: adesso oracolati, in vita spesso accusati, traviando anche il loro pensiero. Ricordiamo quando Sciascia rettificò la famosa frase attribuitagli, “Né con lo Stato né con le Br”, dicendo a chiunque lo conoscesse “io le tasse le pago allo Stato, non alle Br”. Oppure la vicenda molto complessa con il generale Dalla Chiesa, ciò che scriveva su di lui, non esattamente parole di beatificazione, come al tempo tutti si affannavano a pronunciare.

Uno dei miei libri preferiti è Gli zii di Sicilia, e forse in generale preferisco lo Sciascia dei racconti, e il saggista, al romanziere. Un errore separare la sua scrittura in generi?

Posso dire che per me ogni libro di Sciascia è un libro molto letterario, per questo la definizione che preferisco dello scrittore Leonardo Sciascia è quella di “interprete conflittuale”. Anche i suoi romanzi, come Il giorno della civetta, ma penso anche a Il mare colore del vino, per restare ai racconti, sono scritti fortemente letterari e allo stesso tempo di testimonianza, come per la scrittura giornalistica. Confesso di avere tutte le opere di e su Sciascia sullo scaffale accanto alla poltrona viola dove lavoro, devo averle sempre a portata di mano, come una sorta di talismano. E più delle Opere complete Bompiani, edizione magnifica, preferisco continuare a consultare i singoli libri. Per esempio prendendo ancora A futura memoria, sull’Espresso del 25 gennaio 1987, rispondendo a Giampaolo Pansa scriveva: “Non so se molti sappiano scrivere, ma so che quasi nessuno sa leggere”. Ecco, a me sembra un incipit di grandissima letteratura. Rispetto all’intellettuale, soprattutto di sinistra, estremamente compiacente, che sa cosa dire e come fare, trovo questa scomodità di Sciascia letteratura e cronaca insieme, qualcosa di rarissimo. Una dicotomia che condivideva con Pasolini, ben diversa dal deserto che c’è in giro: comprende sia l’essere scrittore che l’essere giornalista. In questo senso, tutti i suoi libri sono sempre qualcosa a metà.

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Che rilevanza ha avuto il connubio Sellerio-Sciascia per la letteratura italiana degli ultimi decenni?

Sicuramente nasce con il rapporto tra Leonardo ed Elvira, una simbiosi culturale che ha fatto storia, sino a quando Sciascia decise di passare a Bompiani, portando con sé Gesualdo Bufalino. Qualcosa si interruppe... A me dello Sciascia con Sellerio interessa lo scrittore-editore, le bandelle che appartengono alla casa editrice, non all’autore, ma che restituiscono il suo percorso editoriale attraverso alcune definizioni immortali, le quarte di copertina, le schede degli autori come quella dedicata a Maria Messina, scrittrice che raccontò la cultura siciliana. Dietro quelle didascalie c’erano  le scritture di grandi penne, la sua e di Bufalino. Ciò significa saper fare il proprio lavoro, saper leggere bene, ed essere un editor fantastico.

Il libro che l’ha fatta conoscere al grande pubblico è Gli anni al contrario, una storia che si potrebbe definire anche di letteratura politica, come è stata definita tanta narrativa di Sciascia. Esiste ancora un genere letterario “civile”?

Non lo so, e in realtà mi sento una scrittrice letteraria, in cui la politica entra come spirito del tempo: non sono attratta dal genere né come lettrice né come autrice, infatti è strano mi piaccia Sciascia... Non credo nei libri a tema, spesso i romanzi civili hanno questa prerogativa e da lettrice mi raffreddo, non seguo il genere. Penso a Giorgio Fontana, che leggo con piacere ma è un altro tipo di letteratura, o a Marco Balzano, che scrive anche per dare voce a un’ingiustizia, a una parte, creando qualcosa di bello. Ma preferisco una letteratura in cui la politica sia un’innervatura, o grottesca o paradossale, o demoniaca, come ne La legge dell’odio di Alberto Garlini. Non so cosa sia il romanzo civile, a meno che non lo sia Le benevole di Jonathan Littell, secondo me nella prima parte molto riuscito, dove ti incazzi perché trovi il male dentro di te, e nel vero che ti circonda.

Un’ultima domanda sull’avventura di “K”, la nuova rivista di letteratura de Linkiesta da lei curata. Il primo numero è appena uscito. Quali sensazioni?

Un’avventura pazza, nata in pandemia. Christian Rocca e stato il primo a darmi spazio e fiducia quando ho iniziato a scrivere, e quando mi ha telefonato, con le librerie chiuse, mi ha detto “Facciamo una rivista rigorosamente di carta? Che ne pensi?”. Non sembrava proprio il momento giusto, mentre tutti i giornali si convertono al digitale, Ma noi di questa rivista non faremo mai la versione digitale. Vorremmo diventasse un oggetto di culto, anche perché molti editori si sono convinti che i lettori siano cretini, mentre in realtà c’è bisogno di carta, perché ci sono lettori che non faranno vendere centinaia di migliaia di copie, non acquistano best-seller, ma comprano quaranta libri l’anno e sono lettori solidi, di qualità. Così siamo andati in stampa in maniera piratesca, con un budget ridotto e una prima tiratura piena di refusi. Si tratta di una rivista di racconti, con un tema individuato per ogni numero, sul modello del New Yorker. E per il primo abbiamo scelto il sesso, per stuzzicare subito gli scrittori e i lettori con qualcosa che mette in difficoltà... Io praticamente non ne ho mai scritto, e allora ho pensato: “Andiamo a complicarci la vita, mettiamo in imbarazzo i colleghi”. La prima tiratura di 1.500 copie è andata esaurita in pochissimo tempo, con una vendita di 10-15 copie al giorno, pur essendo presenti solo nelle librerie indipendenti. Non male di questi tempi. Abbiamo già altri due numeri su cui stiamo lavorando, uno in primavera e uno in autunno, forse anche con il contributo di scrittori stranieri. Vedremo come andrà il 2021 e poi decideremo se e come proseguire.