Tutte le periferie si somigliano. Ma ognuna ha un modo di esserlo tutto suo. Morris Gola, rapper e "furgonaro" di Cinecittà, si porta pezzi del suo quartiere romano dentro a ogni sua rima. La sua musica è espressione di quelle strade, dentro cui, come lui stesso ha dichiarato, ci trova tutto quello che gli serve per scrivere. Ritmo e parole a tempo di carico e scarico merci, mentre il beat lo batte la città. Dopo il disco "Sprinter", a settembre è uscito, per Visory Records, il singolo "Plexiglas". Un pezzo che parla di distanziamenti sociali pre e post pandemia, che il covid 19 ha solo amplificato. Racconto sociale, 'r'n'b, lavoro. I suoi pezzi nascono così. Le parole scorrono via veloci, come i chilometri, ogni giorno, sul furgone. 

Morris, da cosa nasce la scintilla quando scrivi, come inizi a pensare a una canzone?

Faccio le consegne su un furgone insieme a mio padre, in giro per le strade di Roma. Durante il lavoro catturo tutte le immagini che le strade della città mi offrono, e le trasformo in musica.

Hai una doppia anima di lavoratore: di notte sul palco, di mattina sul furgone a fare traslochi. Cosa vuol dire per te essere un "musicista operaio" e in che modo questi due mondi si influenzano a vicenda? Lo hai raccontato in parte nel tuo pezzo "Fuckino".

Per me, lavoro e musica si completano. Il lavoro dà alla musica gli argomenti da trattare, e la musica in cambio gli restituisce la bellezza che serve ad affrontare una vita faticosa.

Il tema del "doppio lavoro" dei musicisti è quanto mai attuale oggi, che il Covid ha messo in evidenza tutte le fragilità del sistema e del mercato musicale...

A me m'ha detto un po' male, perché con il furgone faccio le consegne principalmente agli alberghi, che sono praticamente fermi, quindi si può dire che ho perso tutti e due i lavori...  A parte la mia situazione, comunque, sicuramente c'è un problema a riconoscere ufficialmente l'arte come un mestiere a tutti gli effetti, con tutti i diritti e le tutele che ne conseguono. Spesso, infatti, gli artisti che riescono ad affermarsi lo fanno in maniera indipendente, senza passare per canali istituzionali.

Come hai detto tu, il rap deve abbandonare gioielli e collane e tornare alla sua essenza, ovvero occuparsi di lavoro, diritti, giustizia sociale. Come recuperare quest'anima "pura"?

Non credo che il rap debba abbandonare quell'immaginario. Non sono un purista. A volte c'è bisogno anche di riprendersi le cose materialmente, con tutte le collane e i gioielli del caso. Solo che quello non è il mio mondo. E voglio dimostrare che non esiste solo quel mondo, ma c'è un alternativa, fatta di umiltà e lavoro silenzioso lontano dai riflettori. La cosa che mi scoccia di più è quando la ricchezza viene ostentata da chi non se l'è nemmeno guadagnata...

Un altro aspetto tipico del rap è diventato, spesso, l'aggressività verbale. Tu invece nei tuoi pezzi scegli la strada più sottile dell'ironia e del racconto sociale.

Diciamo che sono aggressivo in un altro modo. Non sono aggressivo perché bestemmio o parlo di armi, ma la mia è comunque una scrittura di attacco e di critica, e non di semplice fotografia della realtà. Anche quando utilizzo un linguaggio più poetico o ironico, lo faccio con uno spirito di forte conflitto. 

Uno dei tuoi pezzi più conosciuti è Working class. Come si tengono insieme arte e classe operaia?

Negli ambienti di lavoro si incontra un sacco di umanità e di belle persone. Quando si fatica insieme, si va oltre lo stipendio. Si condivide uno sforzo comune per raggiungere un obiettivo. Queste cose non possono rimanere nell'ombra. Devono essere gridate al mondo. E l'arte può farlo.