Il 31 maggio 1996 muore a Roma Luciano Lama, giovane partigiano protagonista della stagione fondativa della democrazia italiana, dirigente sindacale e uomo di sinistra, costruttore del sindacato e della Repubblica. Fra i principali artefici dell’intesa unitaria, strenuo sostenitore dell’unità sindacale e ideatore del Patto federativo dopo che le speranze dell’unità organica erano state momentaneamente accantonate in seguito alla vittoria del centro-destra nelle elezioni politiche anticipate del maggio 1972, la sua segreteria è la più lunga nella storia ultracentenaria della Cgil.

Arrivato al vertice della Confederazione poche settimane dopo la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Lama vive con la massima fermezza possibile - dalla bomba di Piazza della Loggia a Brescia a quella alla stazione di Bologna, dall’omicidio di Moro a quello di Guido Rossa - la stagione dello stragismo prima e del brigatismo dopo, coniugando le forme più classiche della mobilitazione sindacale con i linguaggi della politica nella società di massa, attraverso una presenza efficace tanto nelle lotte operaie quanto nella comunicazione politica. Amava definirsi “un riformista unitario”. E l’unità, come valore in sé, è sempre stata la sua bussola, da quando, nel novembre 1944 diventa segretario della Camera del lavoro di Forlì, per approdare tre anni dopo alla segreteria confederale, chiamato da Giuseppe Di Vittorio in persona.

Il rapporto tra Lama e Di Vittorio è un rapporto molto speciale, nato nel 1945 quando il giovanissimo Luciano partecipa in qualità di segretario della Camera del lavoro di Forlì al Congresso nazionale della Cgil a Napoli. “Tra Lama e Di Vittorio si instaura un rapporto particolarissimo - scriveva Giancarlo Feliziani -: per Lama, Di Vittorio è un maestro di vita, per certi versi un secondo padre. Ha stima incondizionata e grande tenerezza per quel dirigente straordinario in grado di guidare scioperi, indirizzare congressi, ma anche capace di addormentarsi improvvisamente nel bel mezzo di una riunione. Per Di Vittorio, uomo appassionato e dalla forte personalità, autonomo nel pensiero e non condizionato da vincoli di appartenenza politica, un uomo schietto che ha dedicato la vita alla causa del lavoro, mai disposto ad accettare ordini, neppure se arrivano dalle Botteghe Oscure o da Togliatti in persona, quel giovane con la faccia aperta ai dubbi rappresenta il futuro, la speranza, l’entusiasmo, l’intelligenza politica. Ma quel giovane disinvolto e laureato in Scienze sociali rappresenta anche ciò che lui, bracciante poverissimo, avrebbe voluto, ma non è riuscito a essere. Quei due uomini diventano inseparabili: dove c’è Di Vittorio, un passo indietro, c’è sempre anche Luciano Lama, che giorno dopo giorno va assumendo nel sindacato un ruolo di sempre maggior spicco. La sua ascesa irresistibile è nelle cose, nell’organizzazione quotidiana, nella progettualità della Cgil”.

Lama è al fianco di Di Vittorio ai funerali delle vittime dell’eccidio di Modena del 1950 e compare sempre più spesso al suo fianco nei viaggi ufficiali tanto che, si racconta, a volte veniva scambiato per il figlio. Quando Scelba gli ritira il passaporto nella primavera del 1952, impedendo a Di Vittorio di recarsi a New York al Consiglio economico e sociale dell’Onu come presidente della Federazione sindacale mondiale e i parlamentari della Cgil protestano con il presidente della Camera, è il giovane Lama che tiene i contatti con Di Vittorio. Ed è sempre Lama a pronunciare al Comitato direttivo del 3 dicembre 1957 l’orazione funebre a lui dedicata.

“Cosa devo a Di Vittorio? Prima di tutto - dirà nel novembre 1981 in un’intervista all’Espresso - i ferri di un mestiere non facile. Il coraggio di affrontare la realtà, anche quella che non ti piace. Lo sforzo costante di non appagarsi della superficie, ma di vedere quello che c’è sotto le cose. Infine, l’abitudine a pensarci su, a non essere frettoloso nei giudizi, ma poi ad avere il coraggio di esprimerli anche controcorrente”.

Un concetto che “il signor Cgil” ribadirà fino alla fine, fino al suo ultimo, bellissimo, discorso di commiato dalla Confederazione nel quale, commosso, affermerà: “Compagni, non abbiate paura delle novità, non rifiutate la realtà perché vi presenta incognite nuove e non corrisponde a schemi tradizionali, comodi ma ingannevoli, non rinunciate alle vostre idee almeno finché non ne riconoscete altre migliori! E in quel momento ditelo! Perché un dirigente sindacale è un uomo come gli altri e se in quel momento gli altri lo riconosceranno capiranno anche gli errori. So bene che questo metodo comporta anche il rischio di pagare dei prezzi, ma non c’è prezzo più alto che la verità: ma in una grande organizzazione, pluralistica e complessa nella ideologia e nella condizione culturale e sociale dei suoi stessi aderenti, il libero confronto, il coraggio delle proprie posizioni sono lievito indispensabile, un contributo al miglioramento delle politiche, alla ricerca collettiva della strada giusta”.

La parabola del ‘gigante buono’ (la definizione è di Aris Accornero; “Il più bello dei marxisti famosi”, lo promuoverà Epoca; “Un uomo che parlava al paese” nelle parole di Giorgio Napolitano il giorno seguente alla sua morte) alla guida del più grande sindacato italiano è racchiusa tra due estremi opposti: diventa segretario generale della Confederazione nel 1970, a poche settimane dall’autunno caldo, cioè dal punto più alto raggiunto dal sindacato in termini di potere nella sua storia, mentre al momento della sua uscita, avvenuta nel 1986, sei anni dopo la terribile sconfitta alla Fiat di Torino con la “marcia dei quarantamila”, dopo la rottura della Federazione unitaria nel 1984 e la sconfitta nel referendum sulla scala mobile dell’anno successivo, il sindacato - soprattutto la Cgil - tocca uno dei punti più bassi, di maggiore debolezza nel suo percorso.

A lui l’Italia deve molto: ha saputo unire e tenere insieme nei momenti difficili, senza strafare nei momenti delle conquiste, senza arretrare nei momenti delle sconfitte. Anche nelle fasi più critiche degli attacchi alla democrazia, anche in quelle di arretramento e divisione sindacale. “Venerdì scorso è morto Luciano Lama - scriveva il 3 giugno 1996 Bruno Trentin nel suo diario personale - E da quel momento (…) mi sono ritrovato immerso nella tristezza e nei ricordi (…) Molte cose ci hanno diviso durante la sua direzione della Cgil e dopo; e certamente le nostre ‘ansie’ erano diverse. Ma egli resta il dirigente migliore che la Cgil poteva esprimere nel lungo periodo della sua reggenza e ha segnato una parte importante della nostra vita. Certamente della mia”.

Certamente della nostra. Ciao, Luciano.