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Navi cisterna, complessi aeroportuali, centri di distribuzione robotizzati. La spinta propulsiva che la logistica ha ricevuto dagli anni Ottanta ne fa oggi il maggiore datore di lavoro al mondo, con un fatturato pari a 4,7 trilioni di dollari l'anno. Profitti enormi che si concentrano nelle mani di pochi, mentre a farne le spese sono la tantissima manodopera del settore e l'ambiente in cui viviamo. Questo il quadro messo in luce da due report, Corridoi come fabbriche e La grande illusione, pubblicati dalla Ong europea Counter Balance e tradotti dall'associazione italiana Re:Common.
I dipendenti della logistica sono reclutati tramite sistemi di collocamento gestiti da intermediari privati. Una manodopera interinale, dunque, che rende più semplice alle aziende spostare la produzione in Paesi con tassazioni favorevoli, salari bassi e poche tutele. Tra il personale impiegato nella logistica, la maggioranza ha firmato un contratto just-in-time: un regime di chiamata senza preavviso che prevede la disponibilità incondizionata (24 ore su 24, sette giorni su sette), con una paga che però è ristretta ai brevi periodi in cui si maneggia un container o si scarica un camion. Per di più, i lavoratori sono sottoposti a “monitoraggi costanti e intrusivi, grazie a videocamere negli abitacoli, tracciamenti Gps, etichette incorporate nelle carte d'identità o sugli indumenti, applicazioni del cellulare. Tecnologie digitali usate per rilevare le presunte inefficienze e massimizzare la produttività.
Diffuse ovunque, queste misure sono addirittura istituzionalizzate all'interno delle Zone economiche speciali (Zes): aree in cui le imprese godono di benefici fiscali e semplificazioni amministrative, nonché dell’erosione dei diritti della forza-lavoro. Nel perimetro di queste moderne zone franche sono sospesi i salari minimi e la libertà di associazione sindacale. I turni di servizio sono regolati in base al modello 966: dalle 09:00 alle 21:00, sei giorni a settimana.In genere, le Zes comprendono un'area portuale o aeroportuale collegata a una rete continentale di trasporti. La condizione necessaria per istituire una “zona d'eccezione” è infatti la sua connessione ai mega-corridoi marittimi, stradali, ferroviari o aerei. Ma le infrastrutture di questi snodi commerciali sono spesso progettate in modo da provocare ripercussioni negative sull'ambiente.
Da un lato, i “villaggi merci” hanno un impatto enorme sul consumo di suolo. Spesso la loro costruzione implica disboscamento, coltivazioni intensive, accaparramento di terreni agricoli e comunità evacuate. Dall'altro, le infrastrutture logistiche implicano un modo di produzione estrattivista ed energivoro, basato in larga misura sui combustibili fossili.Al momento, infatti, “nessun'altra fonte di energia termodinamica è pratica quanto petrolio, carbone e gas”: facili da stoccare e trasportare, in grado di alimentare la produzione industriale anche nelle regioni più sperdute del pianeta. Non a caso, nella pianificazione dei nuovi hub logistici figurano anche aree capaci di ospitare depositi di gas liquidi, gasdotti e rigassificatori.
Gli ostacoli alla transizione verso le energie rinnovabili si moltiplicano per via di un altro fattore centrale del settore logistico: l'impiego massiccio di mezzi di trasporto inquinanti. “Come si può conciliare un sistema che mira a ottimizzare la logistica per velocizzare lo spostamento delle merci a livello globale con l'impegno a ridurre le emissioni di particelle inquinanti nell'atmosfera?”, si chiede il secondo report. Una domanda legittima, alla luce dei dati dell'Agenzia europea per l'ambiente: ad oggi i trasporti sono responsabili di oltre un quarto delle emissioni totali di gas a effetto serra dell'Unione. La tipologia di mobilità più verde è quella ferroviaria. I suoi costi elevati, però, la rendono meno vantaggiosa. Ecco perché gli operatori della logistica preferiscono autovetture, furgoni e camion che producono oltre il 70% dell'inquinamento di tutto il comparto.