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“Workers Act, le politiche per chi lavora e per chi vorrebbe lavorare”: è il titolo del libro (e-book) in cui è contenuto il nuovo rapporto di Sbilanciamoci! sul Jobs Act e che viene presentato oggi, 4 giugno, con due iniziative a Roma, la prima alla Fondazione Basso e la seconda alla Casa internazionale delle donne
Un tasso di disoccupazione al 7% nel 2060: secondo le stesse stime del Governo contenute nel DEF 2015 (pag.80), il tasso di occupazione tra quarantacinque anni sarà ancora più alto rispetto a quello del 2008 (6,8%), anno di inizio della crisi. Il problema del lavoro non può essere risolto con l’approccio adottato finora - austerità e “riforme” del mercato del lavoro. Il Workers Act di Sbilanciamoci! propone, concretamente, un’altra strada sulla quale intende aprire un ampio dibattito pubblico e confrontarsi con i lavoratori.
Nella prima parte di questo rapporto abbiamo mostrato perché il Jobs Act introdotto dal Governo, contrariamente a quanto affermato dal Presidente del Consiglio, non risponde agli obiettivi dichiarati (rilanciare l’economia e l’occupazione), ma riduce invece i diritti, le garanzie e le condizioni di chi lavora (tutte e tutti, dipendenti e indipendenti), subordinandoli agli interessi delle imprese. Questi – in sintesi – sono gli argomenti che abbiamo sviluppato.
1. Il funzionamento “spontaneo” del mercato non è in grado di portare l’Italia fuori dalla crisi e di creare maggiore e migliore occupazione. Al contrario, le caratteristiche strutturali dei processi produttivi attuali (e futuri) implicano una riduzione dell’impiego di lavoro, una scarsa dinamica della produttività, una pressione al contenimento dei salari, una precarizzazione del lavoro e un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di tutti.
2. E’ dunque necessaria una politica di ampio respiro che riconosca un nuovo ruolo all’azione pubblica in campo economico. Si deve porre fine subito alle politiche di austerità, ridurre il potere della finanza, investire per una trasformazione dell’economia reale, fare nuove politiche per il lavoro e, dunque, la vita delle persone. Abbiamo bisogno di una nuova politica industriale e di una politica pubblica per il lavoro, finalizzate ad intervenire sulla domanda e non solo sull’offerta di lavoro.
3. L’intervento pubblico in economia deve affrontare la necessità di cambiare il paradigma economico e culturale del nostro modello di sviluppo. Ciò significa assicurarne la sostenibilità ambientale e la giustizia sociale grazie al cambiamento quantitativo e qualitativo delle produzioni, dei consumi e degli stili di vita.
4. I problemi del paese non nascono da un lavoro poco produttivo e troppo rigido. Negli ultimi anni è la produttività del capitale a diminuire – vista l’assenza di investimenti e innovazione - non quella del lavoro. I lavoratori italiani lavorano di più rispetto a quelli di altri paesi (in media 1752 ore l’anno rispetto alle 1338 ore della Germania) e hanno livelli di protezione sul mercato del lavoro (diminuiti notevolmente nel corso dell’ultimo quindicennio) in linea con quelli degli altri paesi europei.
5. Il Jobs Act si fonda sull’idea che più flessibilità in entrata e in uscita sul mercato del lavoro favorirebbe un aumento dell’occupazione, della produttività del lavoro e della capacità di innovazione delle imprese. Ma le evidenze empiriche non confermano l’esistenza di relazioni di questo tipo. Con il Jobs Act il tradizionale contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato viene progressivamente sostituito dal cosiddetto “contratto a tutele crescenti”, insieme a una molteplicità di altri contratti non standard. Il “contratto a tutele crescenti” assegna all’impresa il potere di interrompere in qualunque momento il rapporto di lavoro, riservando al lavoratore soltanto una compensazione monetaria. Il contratto di lavoro a termine è del tutto liberalizzato grazie all’eliminazione delle ragioni giustificatrici, può durare fino a 36 mesi ed è prorogabile fino a 5 volte. Le prestazioni di lavoro accessorio vengono favorite con l’innalzamento del compenso massimo annuale da 5mila a 7mila euro. Ciò significa alimentare la precarizzazione, la segmentazione e lo sfruttamento del lavoro. Inoltre, la revisione della disciplina delle mansioni che consente il demansionamento del lavoratore a discrezione dell’impresa quando ricorrano processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale e la legittimazione del controllo a distanza del lavoratore per "esigenze produttive e organizzative dell’impresa" ledono alcuni diritti fondamentali dei lavoratori.
6. I primi dati diffusi dal Ministero del Lavoro sulle assunzioni effettuate a marzo registrano 162.498 attivazioni a tempo indeterminato (circa 53mila in più rispetto al mese precedente) ed un aumento della loro incidenza sul totale delle attivazioni, pari al 25,3% (era il 17,5% nel mese precedente). Ma gran parte di queste assunzioni rappresentano una sostituzione di contratti di lavoro pre-esistenti in altra forma, favorita dalla decontribuzione prevista dalla legge di stabilità per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015.
Quello che si profila sul mercato del lavoro del paese è quindi una varietà di situazioni contrattuali diverse per persone che possono svolgere lo stesso lavoro, una riduzione delle tutele e il mantenimento della precarietà.
7. Tali sviluppi nelle tipologie contrattuali spingono le imprese a utilizzare i lavoratori in modo flessibile, risparmiando sul costo del lavoro, a non investire nella loro formazione e nello sviluppo di competenze che sono essenziali per accrescere la produttività. Il risultato sarà un’ulteriore rallentamento della produttività del sistema economico e della competitività del paese.
Le alternative ci sono.
Al posto del Jobs Act serve un Workers Act. Serve una politica pubblica per il lavoro completamente diversa. Essa dovrebbe essere indirizzata a:
a) rafforzare (anziché indebolire) i diritti e le tutele dei lavoratori dipendenti favorendo la loro effettiva stabilizzazione;
b) investire nella creazione diretta di occupazione pubblica;
c) reindirizzare gli investimenti privati nei settori buoni dell’economia;
d) redistribuire il lavoro grazie a una riduzione sussidiata dell’orario di lavoro;
e) favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro con misure che incentivino l’equa ripartizione del lavoro di cura tra uomini e donne e contrastino la segregazione di queste ultime nei segmenti meno qualificati del mercato del lavoro;
f) estendere diritti e protezioni sociali ai lavoratori non dipendenti;
g) riformare il sistema di welfare, ad oggi di natura lavoristica e familiare, rendendolo universale in modo da assicurare la continuità di un reddito minimo garantito e dignitoso a tutte le persone.
Di seguito le nostre proposte in dettaglio.
1. Una buona occupazione per tutti
250 mila nuovi posti di lavoro pubblici
Dopo la crisi la domanda di lavoro è strutturalmente inadeguata: è dunque necessario un intervento pubblico sul terreno della creazione di occupazione che affronti la contraddizione tra disoccupazione record e bisogni insoddisfatti. Tale intervento dovrebbe andare oltre la concezione del lavoro come merce e coniugare la necessità di creare nuova occupazione con quella di assicurare la riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo e la qualità della vita delle persone. Dato il carattere strutturale della disoccupazione, che il mercato da solo non può (e non vuole) affrontare, è necessario che lo Stato assuma il ruolo di “occupatore di ultima istanza” promuovendo un Piano per il lavoro, con nuove assunzioni nel settore pubblico in alcuni settori chiave: istruzione e salute pubbliche di qualità, servizi per le persone, mobilità pubblica sostenibile, interventi contro il disssesto idro-geologico, manutenzione del patrimonio artistico e culturale, sviluppo delle infrastrutture culturali e sostegno alla ricerca pubblica. Con un investimento annuo di 5 miliardi, si potrebbero creare circa 250mila posti lavoro aggiuntivi l’anno.
Una politica per nuove attività economiche e lavori di qualità
Un piano d’investimenti pubblici e privati “per uno sviluppo di qualità” potrebbe essere avviato utilizzando fondi europei, la liquidità creata dalla BCE con il Quantitative Easing, il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, fondi pensione e d’investimento, con incentivi pubblici e sgravi fiscali per le imprese. Gli interventi dovrebbero delineare una nuova politica industriale del paese, con lo sviluppo di attività economiche in tre ambiti prioritari: a) la sostenibilità ambientale, le energie rinnovabili, il risparmio energetico, la bio-edilizia; b) la diffusione di applicazioni delle tecnologie dell’informazione e comunicazione; c) il settore della salute, del welfare e delle attività di cura, in cui va rilanciato il ruolo dei servizi pubblici. Investimenti, infrastrutture e percorsi di formazione e professionalizzazione potrebbero inoltre sostenere utilmente le molteplici forme di altraeconomia - dal commercio equo alla finanza etica, all’agricoltura biologica, alle produzioni culturali indipendenti - che in questi anni hanno mostrato grandi potenzialità di sviluppo.
Un’Agenzia pubblica per l’avvio al lavoro
Un’Agenzia pubblica nazionale per l’avvio al lavoro dovrebbe assumere il compito di programmare, coordinare e dare unitarietà agli interventi previsti nel Piano per il lavoro. L’Agenzia dovrebbe raccogliere e gestire i fondi relativi al finanziamento dei progetti, nazionali e locali di provenienza dal bilancio dello Stato e degli enti locali o derivanti da contribuzioni e finanziamenti (Cassa Depositi e Prestiti, fondazioni ecc.), definire le procedure di presentazione tecnica dei progetti e il contratto standard di lavoro da applicare nonché le metodologie di monitoraggio e rendicontazione dei progetti realizzati. L’assunzione formale dei lavoratori potrebbe essere decentrata alle direzioni regionali del lavoro o a quelle territoriali.
Parallelamente, una riforma dei Centri per l’impiego dovrebbe prevedere un piano per la professionalizzazione del personale coinvolto e l’istituzione di un’anagrafe pubblica nazionale dell’impiego, utile per un’attività di monitoraggio centralizzata delle politiche attive.
Ridurre gli orari, redistribuire il lavoro
Anche se le misure sopra indicate venissero adottate, non sarebbero sufficienti ad annullare nel breve periodo l’eccesso strutturale della domanda di lavoro rispetto all’offerta. In un tale contesto è dunque ragionevole avviare una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro.
E’ difficile proporre una politica di riduzione dell’orario a parità di salario, così come ipotizzare che alla riduzione delle ore lavorate (settimanalmente o mensilmente) corrisponda una riduzione proporzionale del relativo salario. Nel primo caso sono prevedibili un aumento del costo del lavoro e l’opposizione delle imprese; nel secondo, una decurtazione del reddito settimanale o mensile e la resistenza dei lavoratori. La soluzione che proponiamo è quella di calibrare il carico fiscale e contributivo sul salario a seconda della durata dell’orario, alleggerendolo per gli orari ridotti e aggravandolo per quelli di più lunga durata. Si potrebbe prevedere una prima fascia oraria (e il reddito monetario corrispondente) esente da ogni onere fiscale e contributivo tanto per il lavoratore che per l’impresa; per gli orari di lavoro più lunghi, l’incidenza fiscale e contributiva aumenterebbe fino a corrispondere, per orari normali di 40 ore settimanali, all’ammontare attualmente vigente. Per orari superiori alle 40 ore (gli straordinari) l’incidenza per ora di lavoro prestata dovrebbe essere ancora maggiore.
Stabilizzare i lavoratori precari nelle pubbliche amministrazioni.
Con i blocchi delle assunzioni generalizzati, le amministrazioni pubbliche per assolvere le funzioni previste dalla legge devono ricorrere sempre più spesso al lavoro precario. Un piano di stabilizzazione dei lavoratori precari presenti nella pubblica amministrazione nell’arco di tre anni, accompagnato da una programmazione delle assunzioni in linea con gli obblighi di funzionamento previsti per legge, migliorerebbe la quantità e la qualità del lavoro, l’efficienza della pubblica amministrazione darebbe uno stimolo per i consumi.
150mila ragazzi e ragazze nel Servizio Civile Nazionale
Il Servizio Civile Nazionale (Scn), su base volontaria per cittadini italiani di entrambi i sessi fra i 18 e i 28 anni, nato come sviluppo di quello degli obiettori di coscienza al servizio militare, e istituito con legge statale nel 2001, ha come finalità di riferimento “la difesa con modalità non armate della Patria”. In un ambito asfittico di politiche attive verso e con i giovani, è nei fatti la principale azione pubblica ad essi rivolta dopo la scuola dell’obbligo. Sul piano istituzionale il SCN rappresenta per le istituzioni, attraverso il concorso delle organizzazioni accreditate, lo strumento per attuare interventi su specifici settori. Sul piano sociale offre ai giovani l’opportunità di ridurre il divario tra sapere formale e esperienza, favorendo l’inserimento nel mercato del lavoro in particolare nei lavori di cura, negli interventi di inclusione sociale, di valorizzazione del patrimonio ambientale, artistico e culturale.
La bozza di disegno di legge delega di riforma del Terzo settore, attualmente in discussione in Parlamento, prevede la trasformazione del Servizio Civile Nazionale in Servizio Civile Universale, su base volontaria, accessibile cioè a tutti i giovani che siano interessati a svolgerlo. Il Governo intenderebbe partire dal 2017 con 100.000 giovani coinvolti. Nel periodo 2007-2011 i posti messi a bando sono stati quasi 156.000, ma 432.000 le domande presentate. Al momento la dotazione prevista è di 113 milioni per il 2016 e per il 2017, ma per garantire anche solo 50mila posti nel 2016 servirebbero almeno 300 milioni di euro. Sbilanciamoci! propone che un finanziamento annuale di 840 milioni di euro sia destinato ad attivare circa 150mila giovani l’anno in attività utili alla collettività.
2. Diritti, contratti e garanzie per chi lavora
Il lavoro dipendente
No alla possibilità di licenziare: abolizione delle modifiche all’Articolo 18
Il diritto di lavorare in condizioni eque, umane e dignitose non può essere sacrificato al diritto arbitrario di licenziare. E’ quest’ultimo che il Jobs Act ha sancito consegnando il contratto di lavoro nelle mani del datore di lavoro. Le modifiche all’art.18 dovrebbero essere cancellate ripristinando la tutela piena del lavoratore e il suo reintegro sul posto di lavoro nei casi di licenziamento illegittimo.
Tuteliamo il contratto nazionale: abolizione dell’Articolo 8 del D.l. 138/2011
Occorre rafforzare la contrattazione nazionale abolendo la norma del D.L.138/2011 che ha introdotto la possibilità di introdurre contratti aziendali o territoriali di prossimità, con condizioni peggiori rispetto al Contratto nazionale di lavoro e alla legislazione sul lavoro, concepiti come un grimaldello con cui demolire l’ordinamento del lavoro.
La riduzione delle tipologie contrattuali
Una riforma del sistema delle tipologie contrattuali dovrebbe prevedere l’effettivo ridimensionamento delle forme di lavoro precarie, sino ad oggi soltanto evocato, e la drastica riduzione delle forme contrattuali.
Il Jobs Act si limita ad eliminare il job sharing, l’alternanza di due lavoratori su una stessa postazione lavorativa, e l’associato in partecipazione, che riguarda circa 35mila piccoli imprenditori che si spartiscono gli utili d’impresa. Andrebbero invece cancellati anche il job on call, che porta alle estreme conseguenze la mercificazione del lavoro, e lo staff leasing, la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, che secondo quanto prevede il Jobs Act in futuro sarà utilizzabile per qualsiasi attività e in tutti i settori produttivi.
I contratti di lavoro dovrebbero essere ridotti ai seguenti:
a) Il contratto a tempo indeterminato, con il ripristino dell’articolo 18 e la sua estensione alle imprese sotto i 15 dipendenti;
b) il contratto a termine, suscettibile di un solo rinnovo, con la reintroduzione della giustificazione causale;
c) il contratto di apprendistato, condizionato all’assunzione di almeno il 50% degli apprendisti già impiegati;
d) il contratto part-time, ampiamente riformato in modo tale da impedirne l’utilizzo discrezionale da parte del datore di lavoro e facilitare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori;
e) una gamma ridotta di tipologie di lavoro di autonomo cui dovrebbero essere estese alcune tutele di base (gravidanza, malattia, infortunio);
d) il ricorso al lavoro accessorio retribuito con i voucher andrebbe ricondotto all’originaria funzione, consistente nel fornire ai datori di lavoro non imprenditori, in particolare alle persone fisiche, uno strumento per retribuire in modo regolare le attività di piccola manutenzione domestica, il giardinaggio, le lezioni private sporadiche, o i servizi alla persona occasionali. L’utilizzo dei voucher dovrebbe rimanere precluso alle imprese che lavorano in appalto e alle pubbliche amministrazioni.
Verso un salario minimo e una legge sulla rappresentanza sindacale
Il Jobs Act prevede l’introduzione di un "compenso orario minimo" applicabile ai rapporti di lavoro subordinato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nei settori non regolati da contratti collettivi. Fissare per legge una retribuzione minima, probabilmente più bassa rispetto ai minimi fissati nei contratti collettivi nazionali, comporta il rischio di favorire un abbassamento delle retribuzioni.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti – a cui si applica direttamente la possibile introduzione del salario minimo – la proposta più immediata è quella di agganciare il salario minimo ai minimi contrattuali, eventualmente avvicinando i livelli minimi di diverse categorie. Ciò consentirebbe di: a) estendere la retribuzione minima in modo egualitario anche ai lavoratori (circa il 20%) che non sono coperti dai contratti esistenti; b) tutelare il ruolo della contrattazione nazionale; c) evitare che il salario minimo si traduca in un’erosione dei livelli retributivi più bassi previsti dai contratti; d) assicurare una certa articolazione delle retribuzioni minime in base ai settori, alle categorie e ai livelli delle qualifiche dei lavoratori pur favorendo una convergenza progressiva della soglia di tutela dei salari.
L’introduzione di un salario minimo con tali caratteristiche richiede due passaggi legislativi: l’introduzione di un salario minimo agganciato ai contratti di lavoro e della validità erga omnes dei contratti collettivi di lavoro firmati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative; l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale – da tempo richiesta dalla Fiom in particolare – per stabilire in base al voto e alla partecipazione dei lavoratori stessi quali sono i sindacati “maggiormente rappresentativi”.
Il lavoro autonomo
Lavoro autonomo e partite Iva
Nell’ambito del lavoro autonomo puro andrebbero introdotti, ex novo, due ordini di tutele: l’uno utile a sottrarre il lavoro autonomo a partita Iva (o libero-professionale) al ricatto della committenza, l’altro necessario ad assicurare un insieme di tutele di base per freelance e professionisti di vario ordine e grado, a prescindere dal rapporto contrattuale che intrattengono con i rispettivi partner commerciali.
Un primo nucleo di protezioni andrebbe riconosciuto nei confronti del committente quando questi abusi della propria posizione dominante, imponendo clausole vessatorie, adottando condotte discriminatorie e ritardando indebitamente i dovuti pagamenti del servizio acquisito dal professionista. Su questo piano, potrebbero essere calibrate sul lavoro autonomo alcune norme già presenti contro l’abuso di posizione dominante nella relazione tra imprese, o la disciplina di derivazione europea sui ritardi nei pagamenti.
Un secondo nucleo di tutele di base andrebbe invece assicurato da parte dello Stato in periodi particolari della vita lavorativa: si tratta della gravidanza, della malattia, dell’infortunio, della disoccupazione ma anche del bisogno di formazione e di aggiornamento professionale.
Sarebbe inoltre auspicabile una riforma del trattamento fiscale riservato ai lavoratori a partita Iva che preveda l’esonero dal pagamento dell’Irap, l’applicazione degli stessi parametri utilizzati per i dipendenti in materia di detrazioni sui redditi più bassi, l’eliminazione della maggiorazione Iva dell’1% sui versamenti trimestrali e la completa deducibilità dei costi di formazione e di comunicazione.
Riforma del praticantato
Gli studi professionali sono popolati da centinaia di migliaia di praticanti. L’attività di queste figure non è regolamentata in alcun modo. Le condizioni di tutela in cui viene svolta una attività di vero e proprio lavoro subordinato alle dipendenze di un professionista, sono caratterizzate dall’inesistenza di un contratto di lavoro, l’assenza di una retribuzione (nei pochi casi in cui questa è prevista, spesso non vi sono garanzie sui tempi di erogazione) e l’inesistenza di forme di tutela previdenziali, sanitarie e di conciliazione con i periodi complessi come quelli della maternità o paternità.
Le soluzioni non possono che partire dalla definizione certa e per iscritto dei diritti e degli obblighi del praticante, mediante: a) la stipula di un contratto con il professionista titolare dello studio presso cui viene svolto il praticantato; b) l’inserimento nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro degli Studi Professionali della figura del praticante; c) l’assunzione da parte del titolare dello studio professionale o da parte dell’Ordine locale di ogni onere relativo al praticante; d) l’individuazione di forme di rappresentanza che consenta a migliaia di giovani praticanti di poter partecipare alle scelte che li riguardano in prima persona.
Una situazione particolare riguarda il caso degli avvocati iscritti agli albi, per cui è previsto dal giugno 2013 il pagamento di contributi minimi obbligatori svincolati dai livelli di reddito, con un importo a volte pari o superiore ai redditi di molti avvocati. Il versamento dei contributi dovrebbe essere rapportato ai livelli di reddito.
Obbligo di una retribuzione minima per stagisti e tirocinanti
Nonostante fosse stata annunciata nel 2013, l’abolizione degli stage e dei tirocini gratuiti, purtroppo non è una realtà: i tirocini gratuiti sono formalmente illegali, ma è sufficiente far figurare un tirocinio all’interno di un percorso di studio, ad esempio un corso di laurea o un master, ed esso diventa "curriculare". Ciò consente di non assicurare tutte le garanzie che le nuove normative regionali hanno previsto. Si è creata dunque una situazione paradossale di tirocini di serie A e tirocini di serie B: e i tirocini curriculari sono purtroppo quelli di serie B, al momento privi di un quadro normativo preciso e di un compenso minimo. Dovrebbe essere prevista una retribuzione minima non inferiore a 400 euro mensili per tutti coloro che intraprendono uno stage, con la previsione di un incremento di retribuzione per coloro che svolgono uno stage di 6 mesi.
Tirocini Formativi Attivi (TFA)
Nonostante la riforma della “Buona Scuola” annunci una loro possibile eliminazione, a oggi i tirocini formativi attivi sono considerati un percorso formativo necessario per l’ottenimento dell’abilitazione all’insegnamento. Si tratta di tirocini ai quali si accede con un concorso e non è prevista alcuna forma di sostegno al reddito per chi li frequenta, con la creazione di un’evidente disparità economica tra chi può permettersi di impiegare un anno in un percorso formativo non retribuito e chi no. Nel caso in cui i TFA continuino ad esistere, è necessario che sia previsto un contributo per tutti coloro che seguono il percorso formativo.
3. Reddito e welfare per il lavoro e il non lavoro
La pensione per tutti
Le riforme pensionistiche varate negli ultimi anni, con il passaggio al sistema contributivo, riescono a garantire una pensione dignitosa solo ai lavoratori titolari di aliquote contributive elevate e di un rapporto di lavoro stabile e continuativo. Ciò mentre le riforme del mercato del lavoro, ultimo il Jobs Act, hanno assunto la flessibilità come principio cardine di un modello caratterizzato dall’abbassamento del costo del lavoro e dalla crescente intermittenza dei periodi di occupazione. Vi è una contraddizione profonda in ciò, che condanna gran parte delle generazioni presenti e future a prestazioni pensionistiche molto basse.
Un modello pensionistico e di welfare se non radicalmente alternativo, almeno in parte più virtuoso potrebbe delinearsi seguendo due direzioni. La prima è quella di "compensare" l’incoerenza fra sistema pensionistico contributivo e lavoro discontinuo, precarizzato e indebolito del Jobs Act adeguando il sistema di ammortizzatori sociali, istituendo un reddito minimo che offra idonea copertura a tutti coloro che, temporaneamente o per lunghi periodi, non trovano un lavoro; offrendo adeguati servizi per l’impiego e per la formazione; garantendo contributi pensionistici figurativi, per compensare tutti i periodi di non lavoro e garantire la continuità nel tempo della contribuzione.
Una seconda soluzione è l’introduzione di una pensione universalistica, non sottoposta alla prova dei mezzi, sostanzialmente un assegno sociale (attualmente fra 460 e 640 euro mensili) pagato a tutti gli anziani, a prescindere dall’aver o meno contribuito al sistema pensionistico. Su questa pensione si innesterebbe poi la pensione contributiva, il che permetterebbe anche di abbassare, a parità di prestazione erogata, le aliquote pensionistiche, perché la pensione di base verrebbe finanziata attraverso la fiscalità generale.
In entrambi i casi delineati i contributi individuali verrebbero integrati da risorse pubbliche aggiuntive, che finanzierebbero contributi figurativi (nella prima ipotesi) oppure la prestazione pensionistica di base non contributiva (nella seconda ipotesi).
Un reddito minimo per tutti
Le trasformazioni che hanno interessato il mercato del lavoro rendono necessaria e urgente la riformulazione del sistema di welfare che deve assicurare la disponibilità di un reddito minimo universale e incondizionato a tutti. L’introduzione di tale misura deve tener conto, con modalità sperimentali e risorse crescenti nel tempo, di una realtà in cui sistematicamente una larga parte dei lavoratori sono costretti nell’arco della loro vita a passare da un posto di lavoro all’altro; deve quindi strutturarsi in maniera tale da rendere economicamente sostenibili anche modalità di lavoro intermittenti prevedendo una compensazione alla conseguente incertezza di redditi nel corso dell’attività produttiva e, successivamente, nell’età del pensionamento.
Per la realizzazione di un tale obiettivo, il sussidio deve essere tendenzialmente universale in quanto rivolto all’ampia platea degli “occupabili” (lavoratori sia effettivi che potenziali, sia dipendenti che indipendenti), ma deve essere anche incondizionato, in quanto giustificato dalla condizione del lavoratore e non dall’esistenza o meno di una ipotetica domanda di lavoro.
Il “reddito minimo” così inteso si configura come parte organica di un sistema di welfare nazionale alla stessa stregua della sanità e dell’istruzione pubblica. Un modello di welfare basato su un reddito minimo garantito e tendenzialmente universale è un elemento unificante dell’intero sistema di protezione sociale nel quale i diversi interventi assistenziali non appaiono come espressione di situazioni individuali specifiche ma come “norma sociale” di riconoscimento di un diritto di cittadinanza. Agli effetti sulla redistribuzione primaria del reddito, derivanti dagli interventi di creazione diretta di lavoro o di riduzione sussidiata degli orari, si aggiungerebbero quelli sulla redistribuzione secondaria del reddito dovuti al “ridisegno” del modello di welfare; ne risulterebbero irrobustite le condizioni per il riassorbimento degli effetti amplificatori delle disuguaglianze derivanti dell’attuale modello produttivo. La possibilità di realizzare un modello di welfare così strutturato richiede naturalmente un impegno redistributivo particolarmente intenso e quindi un sistema fiscale più progressivo e più efficiente.
Tempi di vita e di lavoro: maternità e paternità
Il Jobs Act (art. 9 c. a) rinvia l’estensione del congedo di maternità alle donne lavoratrici non dipendenti successivamente alla realizzazione di "una ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie". In sostanza le misure di conciliazione restano ancora privilegio delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti e pensate prevalentemente per le donne.
Sbilanciamoci! propone di assicurare un assegno di maternità universale per cinque mesi, pari al 150% della pensione sociale, a tutte le madri, indipendentemente dal fatto che siano dipendenti o autonome, che siano stabili o precarie, che lavorino o che siano disoccupate. L’assegno di maternità dovrebbe comprendere il riconoscimento di cinque mesi di contributi figurativi da distribuire su entrambi i genitori. L’assegno dovrebbe essere posto a carico della fiscalità generale. E’ necessario inoltre offrire pari opportunità introducendo il congedo per i padri, indipendentemente dal contratto e dalla tipologia di azienda. Le misure di conciliazione dovrebbero essere affiancate da un sistema pubblico per l’infanzia in grado di garantire a tutte le bambini e i bambini un percorso scolastico sin dai primi anni di età.
Saperi e lavoro
Un nesso stringente lega il Jobs Act alla riforma per la Buona scuola del Governo Renzi che compie un ulteriore salto di qualità nella mercificazione e privatizzazione dei saperi e sceglie come obiettivo prioritario non la garanzia universale del diritto allo studio, ma la subordinazione della formazione alle logiche di mercato e alle esigenze di breve termine di aziende e imprese, interessate a comprimere il costo del lavoro. L’aumento degli investimenti pubblici nell’istruzione dall’attuale 4,7% al 6,5% del Pil, la drastica riduzione di quelli destinati alle scuole private, l’approvazione di una legge quadro nazionale sul diritto allo studio scolastico, il sostegno ai redditi degli studenti, insieme a interventi strutturali per l’edilizia scolastica e al sostegno della ricerca pubblica, potrebbero garantire lo sviluppo di un rapporto diverso tra saperi e lavoro e porre le basi per la formazione di un’occupazione qualificata e non ricattabile, capace di dare impulso alla riconversione del modello produttivo in chiave ambientalmente e socialmente sostenibile.