L’occasione giusta per riflettere sulle ondate polemiche che dalla Laguna si sono accanite come uno tsunami, spostandosi un po’ dovunque, sul cinema italiano. Un cinema che non vince più niente. Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino, film premiati all’ormai stinto festival di Cannes, sembrano lontanissimi. Credo che questa supposta “enorme” distanza (tutto sommato solo due anni) possieda una forte connotazione psicologica. Il successo di Garrone e Sorrentino lo distanziamo così perché siamo un pubblico di addetti ai lavori affetti da masochismo, che oscilla fra trionfalismo esagerato e depressione esasperata. Il punto è che questa schizofrenia è dovuta a una consapevolezza profonda che consiste nel non ritrovare nel nostro cinema quella solidità che pure aveva un tempo, e che lo ha reso famoso nel mondo. Una solidità che non veniva soltanto dal prestigio che ebbe il neorealismo di Rossellini, De Sica, Visconti & pochi altri (che dilagò da Truffaut a Scorsese) ma dalla potenza complessiva del cinema italiano che seguì il neorealismo. Tutta la storia che va da Pane, amore e fantasia del 1952 – considerato il film di svolta nel passaggio dal melodramma neorealistico alla commedia ironico-sentimentale del lungo dopoguerra – agli anni settanta e poco oltre è la sintesi avventurosa e straordinaria di un passato discusso e di un futuro che ha tardato parecchio a comparire.

Il passato era il cinema degli anni trenta e quaranta, dai film epici di Blasetti alle commedie di Camerini, che travasò la sua lezione negli allievi Rossellini & Co., i quali a loro volta diedero una scossa decisiva a tutto il nostro cinema, ispirando tutta la cosiddetta commedia all’italiana dei Risi, Monicelli, Germi & Co. E forse, arrivando ad oggi, Garrone e Sorrentino potrebbero essere le novità di questo futuro in cammino. Mi fermo qui. Vorrei limitarmi a dire che questa è stata l’ossatura della grandezza di un cinema, quello italiano, che resiste nonostante la marea dei finti competenti, gli affaristi di Stato, gli imbroglioni e i mistificatori; una marea che inquina i produttori veri (pochi), i finanziatori seri fuori e dentro le televisioni (pochi), gli autori stessi (pochi, anch’essi). Ecco, dopo Venezia vado a Roma per sentire che aria si respira e per vedere se spariranno, almeno un po’, le sofferenze per i mancati (giustamente) premi e per tutti i dibattiti catastrofisti che sono venuti dopo e che continuano. Spero anche in una scelta di film stranieri ben diversa da quella premiata a Venezia dal diabolico familista Quentin Tarantino.