“Il nostro è un problema di flussi. La prima cosa che vorrei dirvi: non è sbagliato che i nostri cervelli vadano all'estero. É male che non si riesca ad attrarne semmai, non essere in grado di importarli”. È una logica priva di fatalismo quella che anima il professor  Roberto Cingolani, direttore scientifico dell'Iit di Genova: in 8 anni 250 brevetti made in italy, 1.250 operatori, età media sotto i 35 anni, 41% donne, forte presenza straniera, top ranking internazionale. É uno sguardo su un mondo in cui la scienza e la tecnologia hanno aperto orizzonti sterminati, ma è soprattutto una boccata di futuro, quella trasmessa alla sala dell'Arengo di Rimini da questo fisico dal piglio comunicativo. Una valutazione realistica delle potenzialità che la ricerca pubblica, e la sinergia tra questa e la ricerca privata, possono ancora esprimere in un paese come il nostro, fatto di potenzialità inespresse.“Il ruolo della ricerca pubblica è quello di guardare al lungo periodo – dice – progettare”, non certo in contrapposizione con quella privata, più orientata al breve periodo e all'applicazione produttiva. E' sul medio che devono incontrarsi. Una boccata di realismo, per una volta positiva.

Autore e coautore di centinaia di articoli, oltre 40 brevetti all'attivo, carriera accademica internazionale, Cingolani dirige una struttura di eccellenza, non da ultimo gratificata dall'apparizione di un robot brevettato dall'Iit nel celebre spot Microsoft trasmesso durante la finale del Super Bowl.

Tra plastiche prodotte con materiali naturali, microturbine, spugne che galleggiano sull'acqua e assorbono solo oli, nanotecnologie, fotovoltaici in plastica e progetti apparentemente avveniristici, Cingolani dimostra di avere i piedi ben saldi su questa terra: “la tecnologia – dice – deve diminuire le differenze, livellandole verso l'alto”. Non è solo, quindi, una ragione puramente macroeconomica, di capacità di innovazione e produzione industriale, quella su cui si concentra. La mission della scienza e della tecnologia è migliorare la vita delle persone. Nel caso della robotica, non sostituire l'uomo ma supportarlo nel suo lavoro, ad esempio ad affrontare ambienti ostili (si pensi agli scenari apocalittici di Fukushima), nella riabilitazione assistita.

Quando parla di “tecnologie umanocentriche per ridurre le differenze”, produce esempi concreti: il suo Iit solo 8 mesi dopo aver pubblicato su Nature uno studio sulle retine artificiali, ha iniziato la sperimentazione. Se dovesse andare a buon fine, questo brevetto permetterebbe di curare la retinite pigmentosa, che progressivamente porta alla cecità. Così sarebbe possibile operarla con un semplice intervento, simile a quello effettuate per rimuovere una cataratta. Il tutto ispirandosi al corpo umano, al suo funzionamento, alle sue potenzialità. Una ricerca ispirata all'uomo e al suo servizio. Quindi una scienza in grado di occuparsi di risorse energetiche e della sostenibilità del loro utilizzo intensivo; di risorse idriche e della sperequazione nel loro consumo tra le società industrializzate e quelle in via di sviluppo. “Poche società ricche – afferma – con età media e tassi di invecchiamento come quelli attuali, hanno bisogno di welfare avanzato; quelle che crescono hanno invece bisogno basic welfare, servizi di prossimità, infrastrutture”.

Serve un approccio nuovo, privo di pregiudizi e di sensi di inferiorità. “Diffidiamo dalla separazione disciplinare – dice – siamo al punto in cui bisogna riscrivere i paradigmi”. “La ricerca pubblica deve essere curiosity driven, a basso costo, no profit. Creare cultura è comunque un beneficio per la collettività. Ci vuole valutazione, principio di responsabilità. Questo lavoro è come lo sport: si può arrivare primi o ultimi, ma bisogna prendere le propri responsabilità. Serve senso dello stato, risorse, buona burocrazia, meccanismi di reclutamento competitivi”. Quasi a dire, con un po' di orgoglio, che esiste anche un modo diverso di essere italiani. (ar)